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APPROFONDIMENTI

Il peccato che conduce a Dio. Il caso del sabbatianesimo

23/06/2005

Il peccato che conduce a Dio. Il caso del sabbatianesimo

L’ebraismo è tra le religioni più legate alle proprie tradizioni, ai propri riti, alle proprie festività. Sembrerebbe impensabile sganciare la religione ebraica da tali aspetti. Eppure nel XVII secolo ci fu un uomo, Shabbetaj Tzevì, che tentò di sovvertire quelle stesse regole, dichiarando che solo attraverso il ripudio e la dissacrazione di ciò che fino ad allora erano considerate le basi della vita religiosa, si potesse raggiungere la salvezza. Se è pur vero, come sostiene Scholem , che Tzevì fu un maniaco depresso, se è pur vero che fu ripudiato dalla comunità ebraica, se è pur vero che il movimento da lui fondato si spense in meno di un secolo; resta il fatto che migliaia di ebrei seguirono questo presunto Messia fino al peccato considerato come il più aberrante: l’apostasia. Vale forse la pena di chiedersi il perché.
Tzevì nacque a Smirne nel 1626 da famiglia agiata che lo avviò agli studi rabbinici. Ricevette, ancora adolescente, il titolo di hakam, un’onorificenza sefardita riservata ai rabbini. E’ fuor di dubbio, dunque, che avesse una profonda conoscenza dei testi biblici ed un’ampia cultura religiosa. Intorno ai venti anni iniziò lo studio dei testi kabbalistici più antichi, lo Zohar e il Qanah. Durante questi studi iniziò a formulare la sua teologia sacrilega, asserendo che l’En-Sof dello Zohar non poteva essere identificato con il Dio biblico di Israele. La Bibbia attribuisce, infatti, a Dio varie caratteristiche, attraverso le quali lo descrive (il giusto, il santo ecc…). L’ En-Sof della kabbalah è considerato, invece, inconoscibile ed indescrivibile. Secondo Tzevì, dunque, il Dio biblico sarebbe da identificare con una delle Sephiroth , questo Dio è di sostanza diversa sia dalle Sephiroth che dall’En-Sof. Con questa teoria, però, Tzevì sottintende la presenza di due divinità, minando, così, la base stessa della religione ebraica, il monoteismo. E’ in questo periodo che in Tzevì inizia a manifestarsi la malattia che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Inizia a trasgredire la Legge e a pronunciare il nome di Dio (cosa sacrilega per un ebreo), ma la cosa più bizzarra è che con questo non vuole ripudiare la sua religione ma è invece convinto di operare per il volere divino, di avvicinare il compimento dei tempi, si sente un eletto. Ma chi trasformò questi deliri in un movimento di proporzioni imponenti, fu un discepolo di Tzevì: Nathan di Gaza. Costui credette di vedere nelle strane azioni dei Tzevì un segno che il momento della redenzione finale fosse vicino e vide in lui non più solo un eletto ma addirittura il Messia. I due iniziarono un periodo di pellegrinaggi durante i quali raccolsero numerosi adepti predicando il digiuno e le mortificazioni del corpo ma soprattutto abolendo numerose leggi bibliche e rabbiniche. Tzevì iniziò a riferirsi a se stesso utilizzando i nomi divini. Tutto questo lo portò alla scomunica da parte dei rabbini di Gerusalemme.
Nathan di Gaza, che fu il vero teologo del movimento, riteneva che gli atti sacrileghi che compiva Tzevì, e che lui imitava e predicava, non negassero la natura messianica di Tzevì, ma ne fossero, invece, la prova certa. L’anima del Messia, diceva Nathan, era in continua lotta, contesa tra le forze del bene e quelle del male. I sacrilegi da lui compiuti non erano che strategie nella guerra contro il male, atti misteriosi e santi, il significato dei quali solo lui poteva comprendere. Il teologo riteneva inoltre che Tzevì, in quanto Messia fosse da ritenersi superiore alla Torah , e con lui tutti i suoi seguaci. Ma questo non è il punto finale della speculazione teologica di Nathan, bensì quello di partenza. Non solo non è più indispensabile seguire i dettami della Torah, ma è addirittura necessario il loro sovvertimento, in una sorta di santo peccato. Di questa teoria il teologo fornisce due spiegazioni: la prima consiste nel fatto che alcune azioni che possono sembrare sacrileghe siano invece sante (come quelle compiute da Tzevì nella sua presunta battaglia contro il male); la seconda che alcune azioni effettivamente peccaminose possano aiutare l’ebreo ad addentrarsi nel male, per poterlo sconfiggere dall’interno. La discesa nel male trova il suo compimento nell’apostasia. Shabbetaj Tzevì si convertì all’Islam del 1666. Il movimento da questo momento in poi iniziò la sua frantumazione in numerose sette, ma non si spense del tutto, come sarebbe logico aspettarsi. Il presunto Messia morì nel 1676. Il suo movimento si era diffuso in tutto il nord Africa, in Palestina, Egitto, Turchia ed Europa contando migliaia e migliaia di adepti.
Viene da chiedersi come dai vaneggiamenti di un uomo malato sia potuto nascere un movimento di così vasta portata. La risposta è forse da ricercare nei fatti che precedettero il sabbatianesimo ed ancor prima un largo ritorno alla mistica in seno all’ebraismo. Sto parlando della cacciata degli ebrei dalla Spagna e dal Portogallo. Questa nuova dispersione nel mondo, portò gli ebrei a rifugiarsi in una forma religiosa che dava loro la speranza di una fine veloce delle loro sofferenze. Questa forma religiosa era la mistica. La dottrina luriana sosteneva che con le azioni sacre, se compiute con consapevolezza e con timore di Dio , si potesse avvicinare la venuta del Messia. Non è difficile comprendere come questa visione delle cose fosse in grado di difendere l’ebreo da quel senso di impotenza che sicuramente deve aver provato nell’essere costretto ad un nuovo esodo. A questo punto dipendeva dalla santità della comunità ebraica, di nuovo riunita se non fisicamente almeno idealmente in questa sorta di rito universale, provocare il compimento dei tempi. E se Luria aveva dato una speranza, Tzevì si presentò come l’adempimento di quella stessa speranza: il Messia era giunto per liberarli dalla sofferenza terrena e dall’esilio .
Forse la risposta alla nostra domanda è la disperazione. Migliaia di persone disperate furono l’esercito di Tzevì.


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