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APPROFONDIMENTI

L’ambiguità dei diritti ''fondamentali''

22/12/2004

L’ambiguità dei diritti ''fondamentali''

Questa è un’epoca, e di epoca si può a ragion veduta parlare, nella quale due termini, tra loro indissolubilmente coniugati, ricorrono continuamente a riempire bocche, pagine di giornali e talk show. Si tratta dell’impegnativo binomio dei “diritti fondamentali”. Quello di cui quasi mai si tiene conto è l’esatto significato di uno dei due termini. Quando ci si riferisce, infatti, al termine “fondamentale” bisogna entrare nel merito del valore semantico che all’aggettivo si è voluto attribuire a livello filosofico quando lo si è abbinato al sostantivo “diritto”. Oggi, quando si pensa a qualcosa di “fondamentale”, viene in mente il sinonimo “indispensabile” e dunque il “diritto fondamentale” viene interpretato come qualcosa di cui “non si può fare a meno”. E’ evidente, allora, che entrino in gioco tutti i distinguo e i relativismi che, di volta in volta, fanno comodo. Qualcuno osserva infatti: “come facciamo noi a ritenere fondamentale per altre culture quello che lo è per noi?”. Oppure, al contrario: “certe cose sono pragmaticamente fondamentali per tutti perché producono un bene universale che è, via via, il diritto alla vita, all’istruzione, alla libertà…”.
Così però non si va da nessuna parte perché si è partiti col piede sbagliato nell’interpretazione dell’aggettivo “fondamentale”. Qualcosa si definisce fondamentale quando ha un “fondamento”, non quando è “molto importante”. Ma cos’è il fondamento?
Dobbiamo necessariamente ricorrere all’univocità della logica formale. Il fondamento è ciò che sta alla base, dunque al principio, e perciò non può essere messo in discussione né argomentato. E’ quello che, in matematica, viene definito “assioma”. Per esempio il concetto di “uno”. Se io chiedo a un ragazzo della mia scuola di spiegarmi perché la matita che gli sto mostrando è “una”, presumibilmente, dopo il primo attimo di sbigottimento per la “stupidità” della mia domanda, mi risponderà con un vecchio e infantile adagio e cioè: “perché sì”. A questo punto io, con sua ancor maggiore sorpresa, lo loderò davanti a tutti, tanto da suscitare in lui il sospetto che lo stia prendendo in giro. E’ alla mia seconda domanda che il ragazzo capirà l’autenticità della mia soddisfazione. La seconda domanda sarà la seguente: mostrandogli due matite gli domanderò “perché queste matite sono due?”. Mi guarderà, ancora una volta inebetito per la rinnovata stupidità della mia domanda, e mi risponderà: “perché sono una più un’altra!”. Lapalissiano per i nostri alunni. Un po’ meno per chi è abituato a riempirsi la bocca di un concetto come “diritti fondamentali” che neanche comprende nel suo significato originale.
In questa prospettiva i diritti fondamentali non sono quelli “maggiormente importanti” in relazione alla nostra attualmente “superiore” cultura occidentale, ma sono quelli che non possono essere messi in discussione perché “immediatamente evidenti”, come l’uno o l’infinito, tanto da non richiedere per la loro affermazione alcuna giustificazione.
Spesso, però, si scambia per immediatamente evidente qualcosa che invece è derivato. Per esempio il “contrario”. Mi spiego. Se io dico “bene”, qualcuno mi risponde “male”, se io dico “amore” qualcuno mi risponde “odio”, se io dico “bianco” qualcuno mi risponde “nero”.
“Embè? (fa la pecora) – risponderebbe l’inconsapevole saccente - è la stessa cosa, solo che ognuno è il contrario dell’altro! Dunque ogni cosa ha pari dignità e diritto ad essere considerata assoluta!”
Errore. Perché se io dico “uno”, tu che rispondi? Rispondi “-1”? E come la potrei mostrare al mio solito alunno la “-1 matita?”. Allora sì che il dirigente scolastico mi farebbe ricoverare!
Dunque l’uno esiste, o meglio “è”, il non uno o il -1 invece “non è”.
Veniamo alle cose concrete: io dico bianco. Il bianco”è” la somma di tutti i colori, dunque è una realtà esistente e non va’ dimostrato. Il nero invece “è” l’assenza di tutti i colori, dunque è un “non colore”. Possiamo dire dunque che il nero è il contrario del bianco in quanto è il “non essere” del bianco e di ogni altro colore. Se qualcuno volesse da me una dimostrazione dell’esistenza del bianco, sbaglierebbe la domanda. Sarebbe lui invece a dover dimostrare l’essere del nero, se ci riuscisse.
Questa è la grande e incredibile pretesa degli intellettuali da trecento anni a questa parte. Spesso chi crede nel bianco è chiamato a dimostrarlo e chi afferma il nero ritiene di non dovere alcuna spiegazione.
Il diritto “fondamentale” alla vita
La vita è. La morte “non è”, in quanto assenza di vita. La vita non va’ dimostrata in quanto immediatamente evidente. La necessità della morte va’invece dimostrata in quanto vuole privare un soggetto del diritto fondamentale (da fondamento) alla vita. Chi dichiara che la morte è un valore o una necessità deve dimostrarlo perché l’onere della prova spetta all’accusa e non alla difesa. Chi difende la vita non deve dimostrare nulla, chi accusa la vita deve dimostrare le ragioni per le quali una vita può essere interrotta. E qui vengono i guai (guai abilmente elusi dalla maggior parte dei moderni “pensatori” con la negazione del bisogno di dover giustificare filosoficamente le loro affermazioni).
In una vita che si “svolge” in un continuum spazio-temporale non esistono altri momenti di non vita se non l’inizio e la fine. In parole povere (e scomode): la fecondazione e la morte dell’individuo. Prima della fecondazione infatti non c’è individuo in quanto non c’è ancora vita specifica, profondamente e inequivocabilmente “unica” nel suo genere e nelle sue caratteristiche genetiche. Dopo la morte non c’è più individuo perché tutto è carne morta, destinata alla putrefazione. Qualunque intervento venga effettuato tra questo inizio e questa fine è inserito nel fluire ininterrotto di una vita che si evolve. E tale intervento, nella misura in cui attenta all’integrità della vita, va giustificato e ne va dimostrata la liceità. Tutto il resto sono chiacchiere e alibi.
Quando il ministro Sirchia ha, seguendo un suo legittimo (anche filosoficamente) pensiero, affermato che l’aborto, in qualunque stadio della crescita sia effettuato, è un omicidio, ha portato rigorosamente avanti la logica del “fondamento”. Ma i benpensanti hanno subito invocato le sue dimissioni, come per esempio il verde Pecoraro Scanio che, reduce dall’affermazione (evoluta in legge sulla tutela degli animali) che la vita degli animali va’ rispettata (e siamo d’accordo!), si scandalizza se poi qualcuno afferma che anche quella dell’embrione umano va’ rispettata. E andrà rispettata fino a quando qualcuno riuscirà a dimostrare che esiste un momento, nell’evoluzione del soggetto prima del parto, in cui si forma, nel continuum spazio temporale, una sorta di pausa metafisica.
Quello che non si vuole ammettere, in tutta questa storia, è che il criterio mediante il quale si vuole decidere della vita altrui non è “fondato” in alcuna metafisica (come ha dovuto ammettere lo stesso Capezzone a Giuliano Ferrara nella puntata di 8 e mezzo del 21 settembre scorso dichiarando l'embrione semplicemente ''materiale biologico'', senza peraltro argomentarlo in alcun modo) ma è relativo all’idea che la vita è tutta qui, che tutto sommato siamo esseri facenti parte un ecosistema nel quale è il più forte che vince. E l’embrione non è il più forte. Legittimo. E’ una visione laica della vita, che non afferma, quando non nega, la realtà trascendente dell’umanità e che quindi assolutizza l’esperienza del “qui e ora”. Perché allora questa ipocrisia senza fine che pretende di legare tali scelte al bene di qualcun altro? Si tratta solo di una scelta comoda. Mi viene in mente l’affermazione soddisfatta di Capezzone quando, attraverso le cellule staminali, si è salvata la vita di un bambino: “abbiamo salvato Luca da morte certa con l'intervento sulle cellule staminali!''. Perché quale altro genere di morte conosce il segretario radicale? La morte non è forse l’unica certezza che abbiamo nella vita? Il posporla sempre più in là non è forse l’illusione faustiana della vita eterna o dell’eterna giovinezza? Ecco, questo è un mito laico che nega ogni valore alla sofferenza e che vede sopra ogni valore il benessere personale. Che c’è di male? Niente, bisogna solo avere il coraggio di dirlo.
La legge sulla procreazione medicalmente assistita
Ma veniamo al dibattito attuale sulla legge 40 del 10 marzo 2004. Innanzitutto va’ chiarita una grande e voluta mistificazione. Si afferma che tale legge sia stata fortemente voluta dalla Chiesa cattolica. Beh, è assolutamente falso perché la Chiesa cattolica, così come per l’aborto, in merito a tali questioni è ben più “restrittiva” della legge in questione in quanto, a causa della visione che ha dell’essere umano, la cui dignità personale per la fede cristiana è tale fin dal momento del concepimento, non ritiene lecito, in quanto fortemente lesivo dei diritti personali, alcun intervento che tenda a minare l’integrità della vita umana. Cito direttamente dal Catechismo della Chiesa cattolica pubblicato l’11 ottobre 1992: La vita umana deve essere rispettata e protetta in modo assoluto fin dal momento del concepimento. Dal primo istante della sua esistenza, l'essere umano deve vedersi riconosciuti i diritti della persona, tra i quali il diritto inviolabile di ogni essere innocente alla vita (§. 2270). E ancora:
L'embrione, poiché fin dal concepimento deve essere trattato come una persona, dovrà essere difeso nella sua integrità, curato e guarito, per quanto è possibile, come ogni altro essere umano.
La diagnosi prenatale è moralmente lecita, se “rispetta la vita e l'integrità dell'embrione e del feto umano ed è orientata alla sua salvaguardia o alla sua guarigione individuale… Ma essa è gravemente in contrasto con la legge morale quando contempla l'eventualità, in dipendenza dai risultati, di provocare un aborto: una diagnosi… non deve equivalere a una sentenza di morte (§. 2274). Infine:
Si devono ritenere leciti gli interventi sull'embrione umano a patto che rispettino la vita e l'integrità dell'embrione, non comportino per lui rischi sproporzionati, ma siano finalizzati alla sua guarigione, al miglioramento delle sue condizioni di salute o alla sua sopravvivenza individuale.
E’ immorale produrre embrioni umani destinati a essere sfruttati come ‘materiale biologico’ disponibile.
Alcuni tentativi d' intervento sul patrimonio cromosomico o genetico non sono terapeutici, ma mirano alla produzione di esseri umani selezionati secondo il sesso o altre qualità prestabilite. Queste manipolazioni sono contrarie alla dignità personale dell'essere umano, alla sua integrità e alla sua identità ‘unica, irrepetibile’ (§. 2275)
Come pensare, dunque, che la legge attuale, la quale tali interventi semplicemente limita, ma non esclude completamente, possa essere accettata dalla Chiesa e dai cattolici?
E’ evidente che la situazione in cui si trovano quelle migliaia di embrioni congelati destinati a morire se scongelati è un paradosso. E’ il paradosso di una “vacatio legis” che ha permesso un precedente abuso. Ma questo paradosso, di per sé, non nega che quegli embrioni, in quanto soggetti unici e irripetibili, abbiano una loro dignità umana.
Dunque quelle migliaia di embrioni, purtroppo per loro, vanno necessariamente messi tra parentesi in questa dissertazione, così come tutti i milioni di euro spesi per le attrezzature di ricerca, di cui tanto si sono scandalizzati i medici intervistati da Report del 17 settembre scorso (allo stesso modo i nazisti avrebbero potuto contestare la distruzione delle camere a gas, costate milioni di marchi dell’epoca) perché se si fa una legge diversa, aperta alla creazione, per motivi terapeutici, di altri embrioni, sarà un problema per altri milioni di embrioni-individui ai quali, forse, si potrebbe risparmiare la squallida fine del divenire, senza essere interpellati ,“pezzi di ricambio” per gli altri.
Il problema è che l’uomo, con la morte di Dio proclamata da Nietsche, si illude di essere diventato artefice esclusivo del proprio futuro e di quello degli altri. Così, spariti i punti di riferimento, quali l’accettazione della caducità dell’esistenza umana, la speranza in una vita oltre la morte, la certezza dell’amore di una trascendenza che provvede ad ognuno secondo il proprio bisogno, l’umanità rischia di tornare ad essere quello che Hobbes preconizzava già quattro secoli fa, un branco di lupi famelici dove ognuno diventerà allo stesso tempo vittima e carnefice.


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