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Il cinema muto


Con l’espressione cinema muto si intende l’insieme dei film prodotti dal 28 dicembre 1895 al 1927, anno in cui, con il film “Il cantante di jazz” diretto da Alan Crosland, si ha il passaggio da cinema muto a cinema sonoro.

Questo passaggio in realtà avviene molto lentamente e richiede uno sforzo enorme per la conversione degli strumenti tecnologici ed enormi costi dal punto di vista economico.
In Italia, per esempio, il primo film sonoro arriva nel 1930 con “La canzone dell’amore” diretto da Gennaro Righelli.

Quando si parla di cinema muto, si è spesso convinti che tutti i film muti fossero privi di qualsiasi componente sonora e che fossero tutti in bianco e nero.
In realtà, i film muti non furono mai totalmente privi di componenti sonore: le sale dove venivano riprodotti i film non erano esclusivamente adibite alla proiezione, per cui capitava spesso di sentire il rumore del proiettore stesso e il chiacchierio del pubblico.
Era frequente la presenza di un “imbonitore” che anticipava alcuni eventi del film per giocare con le attese del pubblico e, in seguito all’introduzione delle didascalie, aiutava il pubblico analfabeta nella loro comprensione.
I film erano accompagnati spesso da una componente musicale che variava di serata in serata (musicisti, orchestre, carillon)

Per quanto riguarda la componente cromatica, i film muti venivano realizzati in bianco e nero ma colorati in seguito con diversi metodi di colorazione:
• Colorazione a mano con dei pennelli appositi, procedimento faticoso e molto costoso, preferito da Meliès.
• Colorazione a tampone, che dava una componente policroma a ciascun fotogramma.
• Imbibizione e viraggio, insieme o separate, davano a ciascun fotogramma una sola componente cromatica.
Il colore era un modo per conferire al film un certo grado di drammaticità.

Caratteristica dei film muti era la velocità di proiezione e ripresa variabile: tendenzialmente non poteva essere inferiore ai 14 fotogrammi al secondo, mentre con il cinema sonoro si stabilizzerà a 24 fotogrammi al secondo intorno alla metà degli anni 20.

Nel 1926, con l’uscita del film-documentario “Moana” diretto da Flaherty, il cinema conosce il passaggio dalla pellicola ortocromatica alla pellicola pancromatica.
La pellicola ortocromatica era molto sensibile alla luce, quindi rendeva alla perfezione la profondità di campo e la tridimensionalità, ma poco sensibile ad alcune radiazioni dello spettro cromatico (poco al giallo e al verde, per nulla al rosso).
La pellicola pancromatica invece era poco sensibile alla luce e molto sensibile a tutte le radiazioni dello spettro cromatico, perciò rendeva le immagini e la gamma di grigi molto più morbidi.

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