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La traduzione per Goethe, Humboldt, Schleiermacher

Nella Germania romantica il problema del tradurre è questione filosofica e intellettuale. Per Goethe, Humboldt e Schleiermacher la traduzione è incontro di culture: la lingua del traduttore deve adattarsi e accogliere la diversità del testo straniero.

Goethe distingue tre generi di traduzione: il primo ci fa conoscere l'estero dalla nostra prospettiva (ad es. la Bibbia di Lutero); il secondo si sforza di trasferirsi nelle situazioni del paese straniero, ma in realtà tende solo ad appropriarsi del senso a noi estraneo e a raffigurarlo nel proprio senso.

Questa è per Goethe l'epoca parodistica ed è il caso della Francia: così come adatta le parole straniere alla propria lingua, il francese procede anche con i sentimenti e i pensieri. Il terzo genere, e la terza epoca, è quello in cui la traduzione rappresenta paritariamente l'originale.
Goethe coglie il significato politico della traduzione, cioè il bisogno di definire l'identità linguistica e culturale attraverso il confronto con un'alterità. Parimenti per Humboldt, il fine della traduzione è acquisire per la lingua e lo spirito della nazione ciò che essa non possiede o possiede altrimenti. La traduzione per i romantici è dunque più un lavoro sulle differenze che sulle somiglianze: la differenza irriducibile delle lingue è condizione necessaria della traduzione stessa.

Il senso del discorso si riassume qui: la traduzione ha raggiunto i suoi alti fini se invece della stranezza fa sentire l'estraneo. Il concetto di estraneità è rilevante anche in Schleiermacher: la buona traduzione consente al lettore di uscire da sè e mettersi in contatto con l'estraneità dell'originale.

Tratto da LETTERATURA COMPARATA di Domenico Valenza
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