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Il cinema o l'uomo immaginario, E. Morin



Nel ’56 Morin pubblica il suo saggio Il cinema o l’uomo immaginario, allora considerato di antropologia sociologica, dove egli stesso afferma che questo saggio è un aerolito; in effetti, l’importanza e l’originalità di questo lavoro sono state gravemente sottostimate, proprio perché esso era profondamente innovativo e non classificabile in alcuna delle classificazioni correnti all’epoca. Alcune pagine del saggio furono pubblicate inizialmente nelle pagine della “Revue”, il che indica il rapporto di diretta filazione tra i testi di ispirazione filmologica e il medesimo saggio; d’altronde esso è nutrito di riferimenti alla teoria classica del cinema; la prospettiva antropologica è tuttavia nuova perché si trattava per l’autore tanto di considerare il cinema alla luce dell’antropologia quanto di considerare questa alla luce del cinema, postulando che la realtà immaginaria del cinema rivela con un’acutezza particolare certi fenomeni antropologici.
Morin parte dalla trasformazione, ai suoi occhi stupefacente, del cinematografo, invenzione a finalità scenica, nel cinema, macchina di produzione dell’immaginario; egli, studiando le tesi degli inventori e confrontandole con le dichiarazioni dei primi cineasti e critici che sviluppavano tutti la frase di Apollinaire che considera il cinema come un creatore di vita surreale, chiarisce poi lo statuto immaginario della percezione filmica affrontandolo a partire dal rapporto tra l’immagine e il doppio.
Riprendendo le tesi sartiane sull’immagine come presenza-assenza dell’oggetto, egli fa allora riferimento alla percezione del mondo della mentalità arcaica e della mentalità infantile che hanno come tratto comune di non essere dapprima coscienti dell’assenza dell’oggetto e che credono alla realtà dei propri sogni quanto a quella della veglia; lo spettatore del cinema si trova in una posizione identica in quanto da un’anima alle cose che percepisce sullo schermo. La percezione filmica presenta tutti gli aspetti della percezione magica, che è comune al primitivo, al bambino, al nevrotico; essa si fonda su un sistema comune determinato dalla credenza al doppio, alla metamorfosi, all’ubiquità, alla fluidità universale, all’analogia reciproca del microcosmo e del macrocosmo, all’antropo-cosmomorfismo: tutti questi tratti corrispondono esattamente ai caratteri costitutivi dell’universo del cinema. Se i rapporti tra le strutture della magia e quella del cinema non sono stati, prima di lui, sentiti se non intuitivamente, per contro, la parentela tra l’universo del film è quello del sogno è stata frequentemente percepita; il film ritrova dunque l’immagine sognata, indebolita, rimpicciolita, ravvicinata, deformata, ossessionante, del mondo segreto in cui noi ci ritiriamo nella veglia come nel sonno.
L’autore analizza nei capitoli successivi i meccanismi comuni ai sogni e al film affrontando la proiezione identificazione, nel corso della quale il soggetto, invece di proiettarsi nel mondo, assorbe il mondo in sé; egli approfondisce lo studio sulla partecipazione cinematografica constatando che l’impressione di vita e di realtà propria delle immagini cinematografiche è inseparabile da un primo slancio di partecipazione: Morin lega quest’ultima all’assenza o all’atrofia della partecipazione motoria o pratica o attiva, e stabilisce che questa passività dello spettatore lo pone in situazione regressiva, infantilizzata come sotto l’effetto di una nevrosi artificiale; egli ne trae la conclusione che le tecniche del cinema sono delle provocazioni, delle accelerazioni e delle intensificazioni della proiezione-identificazione. Morin si prende cura di distinguere l’identificazione a un personaggio dello schermo dalle proiezioni-identificazioni polimorfe, che oltrepassano il quadro dei personaggi e concorrono a immergere lo spettatore tanto nell’ambiente quanto nell’azione del film.
Gli sviluppi ulteriori approfondiscono le riflessioni filmologiche sull’impressione di realtà e sul problema dell’obiettività cinematografica, constatando che la macchina da presa mima gli andamenti della nostra percezione visuale, avendo trovato empiricamente una mobilità che è quella della visione psicologica; essi affrontano anche ciò che l’autore chiama il complesso di sogno e di realtà, poiché l’universo del film mescola gli attributi del sogno alla precisione del reale offrendo allo spettatore una materialità esterna a lui, non foss’altro che l’impressione lasciata sulla pellicola.

Tratto da ESTETICA DEL FILM di Nicola Giuseppe Scelsi
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