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Platone e la teoria dell'anima

Platone (Atene 427 – 347 a.C.), il più illustre allievo di Socrate, riprende la teoria dell’anima di matrice orfico-pitagorica solo nel “Fedone”, ma nel “Fedro” e nella “Repubblica” ne formula una sua alquanto originale.
La grande novità della sua teoria rispetto a quella pitagorica sta nel rifiuto della contrapposizione antitetica anima-corpo: il desiderio, dunque, è parte integrante dell’anima, non è una prerogativa del corpo. All’interno dell’anima coesistono diversi centri motivazionali ognuno dei quali cerca di avere la meglio sugli altri.
Il “Fedone” (o “Dell’anima”) è uno dei dialoghi del periodo classico, periodo in cui Platone presenta nei dialoghi i concetti più noti della sua filosofia. In esso mette in scena la morte di Socrate e, secondo la cronologia fittizia, rappresenta l’ultimo dialogo. A Socrate fanno visita i suoi amici che cominciano a disperarsi per quanto gli sta per accadere, ma questi li invita a non preoccuparsi perché l’anima è immortale e sarebbe sopravvissuta alla morte corporale.
Per dimostrare l’ immortalità dell’anima, Socrate ricorre a diversi argomenti.
Il primo argomento è l’argomento della reminiscenza: noi uomini possediamo l’idea dell’uguale in sé (o di qualsiasi altra idea di cui non si può fare esperienza empirica), un’idea che nel mondo reale non può mai incarnarsi in quanto non esistono cose uguali tra loro, ma solo simili. Possediamo questa idea grazie alla reminiscenza (anamnesi), cioè grazie al ricordo di questa esperienza compiuta in un altro mondo. In tal modo si dimostra che l’anima è immortale non solo perché esiste prima del corpo, ma anche perché sopravvive al corpo ed è oggetto di premi o punizioni (in una nuova vita corporale si intende) a seconda dello stile di vita condotto.
Il secondo argomento che Socrate utilizza per dimostrare l’immortalità dell’anima è l’argomento dei contrari: come in natura ogni cosa si genera dal suo contrario (il freddo dal caldo, il sonno dalla veglia e viceversa) così la morte si genera dalla vita e la vita dalla morte, nel senso che l’anima rivive dopo la morte del corpo.
Il terzo argomento è l’argomento della somiglianza: l’anima è il luogo della purezza e del bene, mentre il corpo (soma) è la prigione (sema) dell’anima in quanto è il luogo dei vizi, delle passioni, del male. Per questo l’anima ha le stesse caratteristiche delle idee che ha conosciuto prima di incarnarsi: è qualcosa di unico e unitario, non mista e indivisibile, è monoidés. Ciò determina il suo essere immortale perché la divisibilità è legata alla corruzione dei corpi.
Il quarto argomento è l’argomento della vitalità: per sua stessa definizione, l’anima è principio di movimento. Per questo motivo è principio anche del suo stesso movimento ed è dunque principio di vita. Ad essa non può appartenere la morte.
Le tesi espresse da Platone sono fortemente pitagoriche. Gli stessi interlocutori di Socrate, Simia e Celete, sono pitagorici. Con ciò Platone vuole infatti ribadire l’inclinazione fortemente pitagorizzante delle idee filosofiche di Socrate. Ma queste non rappresentano le posizioni di Platone riguardo alla teoria dell’anima. Esse vengono espresse negli altri due dialoghi prima citati. 


La "Repubblica" di Platone


La “Repubblica” (o “Del giusto”) è un dialogo in dieci libri dedicato al tema della giustizia. Platone, per bocca di Socrate, ha il compito di difendere l’idea secondo cui solo la vita giusta genera felicità, dagli attacchi dei suoi interlocutori: Trasimaco, Adimanto e Glaucone. Essi sostengono, al contrario, che solo la vita ingiusta può realizzare la felicità perché solo vivendo ingiustamente si può realizzare la pleonexia, cioè il bisogno di imporsi sugli altri sopraffacendoli. E se solo gli uomini avessero la possibilità di sopraffare l’altro senza incorrere nel pericolo di essere a loro volta sopraffatti, preferirebbero condurre una vita ingiusta piuttosto che una vita giusta: gli uomini, infatti, decidono di riunirsi in una società civile stabilendo delle leggi che regolino i loro comportamenti solo per la paura che ciascuno ha di subire il bisogno di affermarsi altrui. A tal proposito, nel II libro, Platone presenta l’esperimento dell’anello di Gige: Gige è un pastore che ha scoperto le proprietà di un anello misterioso che, girato in un certo modo, gli offre la possibilità di diventare invisibile. Messosi a capo di una schiera di pastori, giunge al castello del re, seduce sua moglie, uccide il re e si fa nominare re a sua volta senza pagare il dazio per i reati commessi.
Socrate si dimostra dapprima incapace di reggere una sfida teorica così impegnativa, ma poi è come folgorato da un’intuizione: così, sostituendo l’antropologia competitiva degli avversari con una antropologia di tipo collaborativo, enuncia una teoria dello stato secondo la quale gli uomini non si riuniscono in una società per paura l’uno dell’altro, ma per il bisogno che hanno l’uno dell’altro, in quanto ogni membro della società è chiamato a svolgere il suo ruolo specifico in base alle sue doti naturali. 
Le figure principali saranno, dunque, il contadino, che produce cibo per tutti, il muratore, che produce case per tutti, il tessitore, che produce vestiti per tutti e il commerciante, che distribuisce le eccedenze tra i vari produttori affinché ognuno abbia la parte che gli spetta. Nonostante in questa società non si incarni ancora la virtù della giustizia, perché l’unione dei soggetti umani è suggerita dalla necessità di rispondere a bisogni primari, vi è, almeno in forma embrionale, una pallida anticipazione di questa virtù. Tale traccia di giustizia corrisponde alla distribuzione del lavoro secondo le capacità naturali dei soggetti umani.
Per rispondere a Glaucone, che definisce tale città «una città di maiali» non solo per l’eccessiva semplicità della vita costituita da un regime alimentare molto frugale (mangiavano quasi esclusivamente ghiande), ma anche per la stupidità e l’ignoranza che vi si accompagnano, Socrate osserva che dall’associazione degli uomini nasceranno altre necessità ed esigenze cui bisognerà rispondere e la città primitiva si trasformerà in una città trhyphosa, gonfia di lusso, in cui si riproporrà l’ideale della sopraffazione. Entreranno in scena altre figure sociali che avranno il ruolo di soddisfare i nuovi bisogni: ci saranno i cuochi che cominceranno a sperimentare la preparazione di cibi più succulenti, i medici che dovranno curare le malattie scaturite dagli eccessi dell’alimentazione, gli addetti alla cosmesi femminile, una nuova casta di soldati che avrà il compito di allargare e difendere i confini della propria città ed altri ancora.
Secondo Platone, proprio dalla nuova casta militare, i phylakes (guardiani), nascono le condizioni per trasformare la città gonfia di lusso in una kallipolis, una città giusta. Attraverso un processo educativo specifico che ha lo scopo di formare i futuri governanti della città, in questa casta cominciano a distinguersi due sottogruppi: gli archontes, che per natura sono portati a comandare, e gli epikouroi, i soldati, il cui compito è quello di difendere i confini della città. La società sarà così ripartita in tre ceti: produttori (contadini, calzolai, muratori, tessitori…), epikouroi e archontes.
A questo punto, Socrate verifica se il concetto di giustizia valido per la città, secondo cui è giusto «fare ciò che è proprio» («ta heautou prattein», oikeiopragia) secondo l’inclinazione naturale, è valido anche per l’anima. Tale concetto può essere applicato all’anima in virtù dell’“isomorfismo” tra anima e città: come la città si divide in tre gruppi sociali, così nell’anima si distinguono tre centri motivazionali.
L’anima dunque non è qualcosa di unitario: in essa entrano in conflitto tendenze contrastanti per cui una parte di noi desidera qualcosa e un’altra ci distoglie dal farlo. In essa si distinguono una parte irrazionale ed una parte razionale chiamata logismos o logistikon, che calcola, stabilisce le conseguenze di un dato comportamento. A sua volta la parte irrazionale e distinta in epithymetikon, che è la parte legata agli istinti del corpo (cibo, sesso…), e thymos1 o thymoides, che è la parte legata ai desideri di affermazione e riconoscimento sociale. Tre sono, dunque, i centri motivazionali dell’anima: logismos, thymos ed epithymetikon.
Nella classe sociale dei produttori dominerà l’epithymetikon, dunque i desideri del corpo, nella classe sociale degli epikouroi dominerà lo thymos, cioè gli istinti di affermazione sociale, e negli archontes (che più avanti Platone farà coincidere con i philosophoi) dominerà il logismos, cioè il calcolo razionale. La virtù di cui godranno i produttori sarà una “virtù censoria”, la sophrosyne (temperanza), volta a contenere gli istinti del corpo. Gli epikouroi disporranno, invece, dell’andreia, il coraggio in battaglia. Mentre gli archontes godranno della sophia (conoscenza) che ne legittimerà la funzione di comando.
Se dunque la giustizia nella città consiste in una corretta distribuzione dei ruoli (per cui chi è naturalmente portato a comandare deve comandare, chi è portato naturalmente a combattere deve combattere, e così via), un’anima giusta sarà un’anima in cui la parte razionale, che è portata naturalmente a comandare, deve comandare, mentre le altre devono sottomettersi ad essa. Solo l’anima di pochi cittadini, dunque, sarà veramente giusta (quella degli archontes), e per questo realizzare la kallipolis potrebbe essere un’impresa assai ardua. Ma c’è una soluzione a tale problema: i gruppi cittadini influenzati maggiormente dagli istinti irrazionali, possono comportarsi razionalmente accettando il comando degli archontes, accettando, cioè, il principio razionale che non è in loro, ma fuori di loro, perché «è meglio essere costretti a seguire la ragione piuttosto che vivere ingiustamente» (chiaro argomento antidemocratico).
Ma in che senso tutto ciò consente di sostenere che l’uomo giusto è felice e l’ingiusto non lo è? L’uomo più ingiusto, colui nel quale dominano gli istinti più bassi (quelli della sessualità), il tiranno, uomo che secondo la tradizione sofistica è il più felice tra tutti gli uomini perché è libero di soddisfare qualsiasi istinto grazie alla posizione di rilievo che occupa nella città, è in realtà il più infelice perché è il più malato e, in quanto inverte il giusto ordine tra le parti dell’anima, è dominato dalla sua parte peggiore, l’epithymetikon. Un uomo malato non può essere felice.
L’uomo felice sarà l’uomo la cui anima assicura un corretto rapporto tra le parti. Platone esprime un concetto laico di felicità: la felicità può essere raggiunta in questa vita ed essa consiste proprio nello sviluppo della parte superiore dell’anima e quindi nella conduzione di una vita teoretica, rivolta alla conoscenza. Tuttavia, nel X libro della “Repubblica”, con il mito di Er, Platone spiega che l’anima giusta non solo è felice in questo mondo, ma anche nell’aldilà. Il premio concesso all’anima giusta è un surplus che però non mette in crisi il carattere laico della felicità.
Nel “Fedro”, l’idea della suddivisione dell’anima in tre centri motivazionali viene espressa con la figura della “biga alata”, in cui l’auriga rappresenta la ragione che domina sull’impeto collerico, rappresentato dal cavallo bianco più disposto ad essere domato, e sull’impeto dei desideri più bassi, rappresentato dal cavallo nero e recalcitrante.

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