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Il desiderio di narrazione tra due eroi: Edipo e Ulisse

La storia di Edipo

Al mostro che domandava quale fosse l'animale che cammina prima con quattro gambe, poi con due e, infine, con tre, Edipo ha risposto: l'uomo. Troppo nota è la forma de discorso platonico per non suggerirci qui perfette assonanze. Cos'è il giusto, il bello, l'uomo, è nell'opera platonica, la domanda dell'universale che sollecita in risposta una definizione. È insomma forma della filosofia: sembra che Edipo si riveli quindi filosofo. Rispetto al canone platonico, la Sfinge ha però composto con lui un discorso filosofico dalla dinamica rovesciata. Prima è venuta la definizione in forma interrogativa, poi, come risposta, il suo oggetto. O Edipo o la Sfinge devono morire, lui divorato dal mostro, lei precipitata nell'abisso. È il segreto del suo sapere sull'Uomo che tiene in vita il mostro. Non è certo la definizione a essere il lato micidiale dell'enigma. Ciò che decide chi deve vivere o morire è invece la risposta, ossia l'Uomo. La Sfinge , ovviamente , già la conosce: il suo sapere è completo. Indovinando la risposta e componendola con la domanda, Edipo si appropria precisamente di tale sapere. Nel passaggio dal segreto dl mostro alla parola umana, essa non perde il suo effetto micidiale. Sembra dunque che ci sia qualcosa di costitutivamente mostruoso nel sapere sull'Uomo. Nell'Uomo sta il vero marchio del mostro. L'Uomo appunto: un universale che è tutti proprio perché non è nessuno, un'ibrida creatura generata dal pensiero. Una celebre pittura vascolare illustra Edipo di fronte alla Sfinge nell'atto di risolvere l'enigma. Egli non parla, indica col dito stesso. La situazione è davvero paradossale. Quando ancora egli non sa chi egli è, Edipo si riconosce nella definizione dell'Uomo. più che un paradosso, sembra allora, l'ennesimo gioco crudele del mostro. Perché è proprio in quanto egli non sa chi è, che Edipo può identificarsi con l'uomo su cui verte la definizione. Poiché Edipo non sa affatto chi è o, meglio, crede di saperlo ma si inganna, là dove l'universale pretende realtà a scapito dell'unicità, egli è già nella posizione più adatta. L'alternativa mortale della sfida, tra Sfinge ed Edipo, è dunque anche l'alternativa mortale tra l'Uomo astratto e l'unicità concreta. Nella sentenza "io, l'Uomo", è precisamente la realtà dell'io a morire. Sembra quindi necessario che, per l'efficacia filosofica dell'enigma, Edipo non sappia ancora chi egli stesso è. Sofocle, il pubblico ateniese e ovviamente noi, invece, lo sappiamo benissimo: anzi, siamo tenuti a saperlo con dovizia di particolari. La scena presuppone la conoscenza del mythos che da tempo immemorabile narra la storia di Edipo. Il mito è capace di narrare all'un tempo la "vera" storia di Edipo, ossia la storia di chi egli è, e la storia "falsa" che glilo fa ignorare. La morte di Laio è contemporaneamente l'omicidio di uno sconosciuto e un parricidio, l'unione con Giocasta è contemporaneamente un legittimo matrimonio e un incesto. Ciò che regge la doppia narrazione è la sua nascita: di cui egli ignora la verità che il mito invece conosce. Egli non s'imbatte casualmente nella verità della sua nascita, bensì la cerca. E viene a conoscere la sua identità dal racconto esterno che altri gli fanno. Per Edipo è cominciata l'avventura della narrazione. Come sappiamo, si tratta di un'avventura dall'esito infelice. Dalla narrazione altrui, Edipo viene a sapere della sua vera nascita e perciò della sua vera storia. Edipo non sa chi è perché ignora la sua nascita, solo il racconto della sua nascita può quindi svelargli la storia di cui egli è protagonista. Conoscere se stesso, per Edipo, significa conoscere la sua nascita, perché lì la sua storia è cominciata. Sempre, infatti, la storia di vita di qualcuno comincia dove comincia la sua vita. Ignorando la verità della sua nascita Edipo ha potuto credersi un altro, ma non ha mai potuto diventare un altro. Per quanto il mito di Edipo sia tremendo, esso nella sua struttura elementare, dice di un daimon, radicato nella nascita del protagonista, che si rivela in tutte le sue azioni: sebbene egli ne ignori l'effettivo significato nel momento in cui le compie. Che cos'è l'Uomo lo dice un sapere definitorio di filosofica assonanza, chi è Edipo lo dice invece la narrazione della sua storia. Dobbiamo però aggiungere una precisazione: sono gli altri a raccontare a lui la sua storia. Per Edipo, infatti, chi egli sia risulta dalla sua storia di vita che altri gli raccontano. Le azioni che Edipo ha compiuto sono sempre le stesse – un omicidio, un matrimonio – ma il loro senso è cambiato. "Questo giorno ti darà la vita e ti distruggerà", gli aveva predetto Tiresia. Nel medesimo giorno in cui la vita gli viene nuovamente data mediante il racconto della sua nascita, l'altro Edipo, l'uomo di Corinto e il felice re di Tebe, viene distrutto.

Questa è la storia di Edipo, quella che era sua sin dall'inizio. L'essersi potuto credere un altro fa parte della sua storia unica, davvero sventurata. Possiamo ora fare una messa a confronto di due registri discorsivi. Uno, quello della filosofia, ha la forma di un sapere definitorio che riguarda l'universalità dell'Uomo. l'altro, quello della narrazione, ha la forma di un sapere biografico che riguarda l'identità irripetibile di un uomo. le domande che sostengono i due stili discorsivi sono ugualmente diverse: la prima chiede "cos'è l'Uomo?", la seconda chiede invece a qualcuno "chi egli è".

Su tale scena uno dei narratori è cieco. Si tratta di Tiresia, l'indovino, la cui figura impersona l'onniscienza del mito stesso. L'indovino infatti, come il mito, sa per filo e per segno tutta la storia. È onnisciente come noi, gli spettatori, tuttavia, al contrario di noi, è in scena. E al contrario degli spettatori, che sono lì per guardare, egli è cieco. La particolarità di Tiresia sta perciò nell'essere in scena mentre le cose accadono e nel poterle raccontare come se fossero già accadute. Egli, come lo spettatore, è impotente, ossia non può agire interferendo negli avvenimenti. Come potrebbe intervenire su un futuro che è già passato? Per quanto il suo mestiere di indovino lo colleghi al futuro, lo sguardo di Tiresia, come quello di ogni narratore, è infatti sempre retrospettivo. Del resto, quando Edipo ha udito tutto il racconto, anch'egli si acceca. Ora Edipo è cieco perché vede riaccadere nella memoria ciò che prima non aveva mai veduto. Cieco rispetto al presente, egli continuerà a vivere senza esistere nel presente, portandosi addosso solo la sua storia. Ciò che l'Edipo sofocleo manifesta è innanzitutto un desiderio di narrazione, ossia il desiderio del racconto della sua storia. Questa storia è appunto biografica. Essa viene tragicamente a Edipo dalle narrazioni altrui proprio nel momento in cui egli si ingannava nel pretendere di raccontarla.

Il paradosso di Ulisse

C'è un eroe che, pur non ignorando la sua nascita, sembra non sapere che è finché non s'imbatte nel racconto della sua storia. Si tratta di Ulisse. In una scena dell'Odissea, Ulisse siede come ospite alla corte dei Feaci, in incognito. Un aedo cieco intrattiene col suo canto i convitati. Canta della guerra di Troia, narra di Ulisse, delle sue imprese. E Ulisse, nascondendosi il volto, piange. "Non aveva mai pianto prima, certo non quando i fatti che ora sente narrare erano realmente accaduti. Soltanto ascoltando il racconto egli acquista piena nozione del suo significato". Nel sentire la sua storia Ulisse si commuove perché quando aveva vissuto direttamente le vicende narrate non ne aveva compreso il significato. Ora Ulisse viene a riconoscersi nell'eroe di questa storia. Acquisendo appieno il significato della storia narrata, acquisisce anche nozione di chi ne è il protagonista. Dunque, prima di sentire la sua storia, Ulisse non sapeva ancora chi è: il racconto di un altro, finalmente gli svela la sua identità. Ulisse al contrario di Edipo, non ignora la sua nascita. Questo è il nucleo del paradosso. Come ha potuto Ulisse piangere per l'effetto rivelativo del racconto biografico, se egli è in grado di narrare la sua autobiografia? Perché qualsiasi siano le circostanze della nascita, il significato dell'identità è sempre affidato al racconto altrui della propria storia di vita? Maria Zambrano scrive che tutto è correlato nella vita: il vedere è il correlato dell'esser visto, il parlare dell'ascoltare, il chiedere del dare. Per Hanna Arendt "essere e apparire coincidono". Fin dalla sua nascita ciascuno mostra agli altri chi è. Il carattere espositivo e quello relazionale dell'identità sono indisgiungibili: si appare sempre a qualcuno, non si può apparire se non c'è nessun altro. L'esistere consiste nell'esporsi su di una scena plurale dove tutti, apparendo l'uno all'altro, si mostrano unici. Ciascuno di noi è chi appare agli altri nella sua unicità e distinzione. Un'identità esposta agli altri è anche impadroneggiabile. Chi si espone, infatti, non può conoscere chi sta esponendo perché non si vede. È dunque più che probabile che il chi, che appare in modo così chiaro e inconfondibile agli occhi degli altri, rimanga nascosto alla persona stessa. Nessuno può conoscere, padroneggiare o disporre della propria identità. Ognuno non può che esibirla, ossia esibire quell'unicità irripetibile che egli è.

La storia di Ulisse, come ogni storia, non ha nessun autore. Egli non ne è l'autore, ne è però il protagonista. La storia, risultata dalle sue azioni, è così una trama impalpabile che va in cerca del suo racconto, ossia del suo narratore. Anche se una storia di vita non ha mai nessun autore, essa ha però sempre un protagonista e, qualche volta, un narratore. Solo una storia inventata rivela un artefice. Una storia di vita fa invece del suo narratore un semplice biografo. Egli si limita a comprendere la storia che l'attore si è lasciato dietro e a metterla in parole. Al contrario dello spettatore, il narratore non è presente agli accadimenti e ha perciò su di essi, uno sguardo retrospettivo. Palese controfigura di Omero, l'aedo è cieco. Egli non vede è l'azione né l'agente. Vede invece con i suoi occhi ciechi la storia che ne è risultata. La cecità del narratore, contrapponendosi allo sguardo dello spettatore, sottolinea così la differenza essenziale fra azione e narrazione. La differenza fondamentale fra azione e narrazione sta infatti proprio qui: il potere rivelativo dell'azione si brucia nell'attimo dell'accadimento, la storia conserva invece nel tempo l'identità del suo eroe. Vera grandezza dell'uomo, l'agire, è infatti fragile: appare e si consuma nell'attimo stesso del suo apparire. Solo il poeta o lo storico possono salvarlo dall'oblio. Ben oltre la sua morte, i posteri sapranno chi era Ulisse. Alla corte dei Feaci, quando si imbatte nel racconto della sua storia, Ulisse è ancor vivo e vegeto. Un altro eroe che invece è riuscito a pianificare appieno l'effetto memorabile della sua morte è Achille. Ad Achille capita infatti di poter scegliere il suo destino. Fra una vita lunga e oscura e una breve e gloriosa, egli sceglie la seconda. Alla fine tutto torna: Achille muore giovane, al culmine di una grande azione e in quella piena e meritata gloria che gli ha concesso fama immortale. Achille riesce non solo a guadagnare ma anche a controllare la sua narrazione. Anch'egli certo ha bisogno di Omero e, perciò dipende dal narratore, ma fra gli eroi, è colui che più di avvicina alla paradossale situazione per la quale il protagonista di una storia di vita ne è anche l'autore.

L'eroe di una storia, secondo Arendt, è necessariamente colui che, con atti e parole, si è rivelato agli altri lasciandosi dietro tale storia. La storia è subordinata all'azione rivelativa. Si può raccontare una storia perchè prima c'è stato un attore sulla scena del mondo. La storia, dunque, è distinta dalla narrazione. Essa ha uno statuto di realtà suo proprio, che segue l'azione e precede la narrazione. Dal che consegue che tutti gli attori si lasciano dietro una storia, anche se nulla garantisce che questa storia venga poi raccontata.

Il desiderio del racconto

Davanti all'inatteso realizzarsi del suo desiderio di narrazione, Ulisse piange. Il racconto gli ha infatti svelato, all'un tempo, la sua identità narrabile e il suo desiderio di sentirla narrare, il desiderio di sentirsi raccontare in vita la sua storia. Tant'è vero che, dopo il pianto che accompagna il racconto dell'aedo, la recente scoperta del desiderio di sentirsi narrare stimola Ulisse a prodursi in una narrazione autobiografica. Biografia e autobiografia si legano insieme in un unico desiderio. Sembra così che una storia di vita, pur avendo sempre nell'altro il suo più adeguato narratore, non sia del tutto estranea al protagonista. A ognuno di noi è familiare il lavoro narrativo della memoria che, anche in modo del tutto involontario, continua a raccontarci la nostra storia personale. Ogni essere umano, senza neanche volerlo sapere, sa di essere un sé narrabile. Chi incontriamo è dunque, a sua volta, un sé narrabile anche se non ne conosciamo affatto la storia. L'altro è sempre un sé narrabile a prescindere dal testo.

L'esistente è l'esponibile e il narrabile: né l'esponibilità né la narrabilità, che insieme costituiscono la sua unicità, possono essergli tolte. Autobiografia e biografia, pur essendo generi diversi del racconto, sembrano non poter stare l'uno senza l'altra. Se ognuno è chi nacque, nessun racconto di una storia di vita può tralasciare quest'inizio da cui la storia medesima è cominciata. Il racconto della sua nascita, non può tuttavia che venire all'esistente nella forma della narrazione altrui. L'inizio del sé narrabile e l'inizio della sua storia sono da sempre un racconto fatto dagli altri. La memoria autobiografica racconta sempre una storia che è monca dell'inizio. È necessario ricorrere al racconto degli altri perché la storia cominci da dove è cominciata, ed è proprio il racconto irrinunciabile di questo primo capitolo che il sé narrabile va a cercare. Al sé narrabile non basta affatto la storia di vita che la sua memoria gli racconta. Non tanto perché la memoria procede come una narratrice volubile e discontinua, ma piuttosto perché la memoria pretende di aver visto ciò che invece si rivela solo allo sguardo dell'altro. La memoria personale continua così a raccontare a ognuno una storia falsa: cioè una storia che falsifica il posizionamento prospettico del sé narrabile. Esponibile e narrabile, l'esistente si costituisce sempre nella relazione con l'altro. Ognuno cerca nella storia, narrata da atri o da se medesimo, quell'unità della propria identità che, lungi dall'avere una realtà sostanziale, invece appartiene soltanto al suo desiderio. L'esempio di Achille risulta prezioso per chiarire un altro lato della questione. La sua capacità di riassumere tutta la sua vita in n solo gesto, esemplifica infatti come l'unità del sé possa essere affidata anche a un solo atto. Nella Biografia di Tadeo Isidoro Cruz, Borges scrive appunto che qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento: il momento in cui l'uomo sa per sempre chi è. Fedele a questo principio, Borges non racconta tutte le notti di Isidoro, bensì solo la notte in cui finalmente vide il proprio volto. Quella notte consuma la sua storia; per dir meglio, un istante di quella notte, un atto di quella notte. Questo illustra come un solo atto possa riassumere un'intera storia di vita. A questa condensazione in un solo gesto, risponde forse la convinzione che il morente riveda in un attimo tutta la propria storia. Secondo Benjamin, allo spirare della vita, si mette in moto, all'interno dell'uomo, una serie di immagini – le vedute della propria persona in cui ha incontrato se stesso senza accorgersene. La memoria del morente fa di costui lo spettatore del film della sua vita. Si dice talvolta che l'autobiografia risponda a una domanda assai precisa "chi sono io?" Sembra invece che si possa sostenere l'esatto contrario. Al chi sono io?" non risponde propriamente l'autobiografia, bensì il racconto della mia storia fatto da un altro.

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