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La diagnosi differenziale


Questo processo di diagnosi è dinamico, di inclusione/esclusione.
Per la diagnosi differenziale occorre valutare elementi di base: prima di tutto è difficile capire che il paziente simula la malattia o meno (questo è molto dipendente dal contesto (per esempio legale/assicurativo), spesso la simulazione è diretta a benefici secondari, questa ipotesi bisogna escluderla altrimenti questo comportamento è in funzione di un obiettivo.
Il disturbo fittizio è la motivazione del paziente a riferire sintomi, e calarsi nella parte del malato ma non in relazione ad un guadagno esterno ma per un bisogno di assumere il ruolo di malato.
Attraverso l’ anamnesi farmacologica e medica va esclusa la possibilità che la condizione attuale del paziente sia dovuta alla presenza di patologie mediche o all’assunzione di sostanze.
Escludere il fatto che questa persona sia necessariamente patologica, magari la persona si trova in un momento di disagio, ma non occorre necessariamente la diagnosi (cercare di capire se la sintomatologia sia attribuibile ad un particolare evento stressante) => evitare la patologizzazione.

Giudizio clinimetrico (Clinimetria) → utilizzo di test, devono essere somministrati con sensibilità clinica, in relazione al contesto clinico (per vedere ad esempio come reagisce il paziente ad una terapia), importante che siano contestualizzati. Possono servire per quantificare o definire un disturbo, confermare o respingere un’ipotesi.

Ragionamento clinico → di fronte a due pazienti che presentano sintomi in comune, ad esempio umore depresso e perdita d’interesse, potrebbero apparire entrambi depressi perché sono presenti sintomi che possono validare questa diagnosi. In entrambi i casi non c’è aumento/perdita di peso. In un caso c’è insonnia terminale (si sveglia prima) l’altro fa fatica ad addormentarsi. Un paziente ha rallentamento psicomotorio, l’altro ha agitazione psicomotoria. L’affaticabilità: il primo ha difficoltà ad iniziare, l’altro ha mancanze di energia nel portare avanti. Il primo paziente ha senso di colpa nel secondo caso no. Mancanza di concentrazione: no nel primo si nel secondo. Non ci sono pensieri di morte in entrambi i casi. Qui ci sono dei criteri sovrapponibili (i primi, quindi sembra un disturbo depressivo maggiore), c’è però una differenza nei sintomi accessori.
La macroarea è: disturbo dell’umore. L’insonnia è diversa (il paziente che fatica ad addormentarsi => ansia, l’altro invece disturbo depressivo maggiore). La differenza nel sentire la fatica è anche importante, in ogni caso però chiedere prima di tutto se può essere relativa ad una condizione medica. Il senso di colpa può far pensare ad un nucleo depressivo (nel primo caso sì, nel secondo no), l’elemento centrale che differenzia i casi è questo perché fa pensare nel primo caso ad orientamento depressivo. Anche il rallento/agitazione, hanno pesi diversi, indicano problemi differenti. Nel secondo caso c’è depressione ma a differenza del primo si deve considerare primarietà/secondarietà => il nucleo è ansioso, il paziente è ansioso con depressione secondaria. Questo porta a terapie diverse (il problema depressivo nel secondo caso, non ha caratteristiche di urgenza). Nel secondo caso la terapia è per l’ansia, anche se presente una depressione secondaria.

Libro: Davide Schiffer, Attraverso il microscopio. => attraverso la visione di vetrini riesce a fare diagnosi di malattie neurologiche (esempio tumori cerebrali).

La diagnosi secondo Mill è un ‘open concept’ = qualche cosa che non si conclude subito, ma si arricchisce e approfondisce. Cerca di mettere ordine tra i fenomeni psicopatologici osservati per mettere ordine. La diagnosi corretta non è quella in assoluto, ma la miglior ipotesi in quel momento, può essere smentita, dev’essere validata nel corso del colloquio e deve permettere la formazione di nuove ipotesi. Si può validare o ritenere non corretta, partendo da qui per nuove ipotesi diagnostiche.

La finalità di una diagnosi è la comunicazione, che permette di comunicare tra operatori sanitari ma anche col paziente ed i familiari. Altra finalità è il fatto che inquadrando il paziente possiamo predire l’andamento del disturbo immaginando il trattamento efficace. La diagnosi permette informazioni aggiuntive, mettere in relazione un certo disturbo con altri della macroarea, questa è un’altra finalità => possibili analogie nell’eziologia ecc.
La diagnosi inoltre da informazioni sull’eventuale presenza di studi clinici, familiari, biologici e di laboratorio, approfondire le conoscenze in merito una patologia (dati epidemiologici, clinici, laboratoristici ecc).

Ci sono dei pregiudizi sulla diagnosi che nel tempo si sono fatti sentire per esempio è stata considerata:
• Mito (Szasz, 1960).
• Diagnosi → incasellamento. Un’ etichettamento che può far perdere l’unicità del paziente
• Diagnosi → inattendibile. L’attendibilità è la possibilità che due studiosi possano effettuare la stessa diagnosi di fronte un quadro, questa è andata aumentando nel tempo i criteri diagnostici, questo a scapito della validità.
• Diagnosi → non valida
• Diagnosi → stigma, profezia che si auto avvera. Il fatto di sapere che una certa persona ha una certa patologia mentale può non essere sempre uno stigma ma aiutare l’interazione con quella persona.

Il grado di conoscenza riguardo la patologia e l’eziologia ci da la differenziazione tra:
• Malattia → fisiopatologia nota, l’eziologia è nota.
• Disturbo → non abbiamo informazioni relativamente eziologia e fisiopatologia, non sono note. Questi sintomi e segni insieme caratterizzano un quadro non spiegabile con altre diagnosi, ma solo spiegabile con questo certo tipo di schematizzazione. (vedi ILLNESS, SICKNESS, DISEASE).
• Sindrome → Con il termine sindrome si intende, in medicina, un insieme di sintomi e segni clinici che costituiscono le manifestazioni cliniche di una diverse malattie, indipendentemente dall'eziologia che le contraddistingue. Si presentano sempre allo stesso modo. Ad es i disturbi di personalità presentano alcuni quadri non specifici, molte comorbidità quindi sarebbe più opportuno parlare di sindromi piuttosto che di disturbo.

Per valutare la presenza di un disturbo mentale valutiamo la sofferenza, la funzionalità ecc.
La definizione o valutazione viene fatta in base vari modelli:
• Modello statistico, non sempre è un buon modello perché ci sono patologie rare
• Modello del distress soggettivo (sofferenza soggettiva), non sempre però è considerabile perché alcuni quadri sono ego sintonici, non ego distonici.
• Modello biologico, più relativo al rischio di vita (esempio depressione => suicidio), ma non sempre è così.
• Necessità di trattamento, è troppo semplice come criterio, non esaustivo.
• Disfunzione dannosa → disturbo come disfunzione biologica ed accezione negativa dal punto di vista sociale. Certi atteggiamenti considerati negativi dalla società non sono necessariamente patologia mentale
• Indefinibilità → il disturbo mentale non ha confini definiti per cui è indefinibile.

C’è stata un’evoluzione dei sistemi diagnostici, si è ampliato molto il concetto di psicopatologia e disturbo mentale. Sono state scoperte nuove diagnosi o sono state inventate?
Sono stati fatti grandi passi avanti, nelle prime due edizioni del DSM i disturbi erano definiti in modo vago, e questo poteva inficiare la validità ma anche l’affidabilità della diagnosi, inoltre in queste due edizioni il riferimento teorico era psicoanalitico, si parlava di reazione agli eventi (concetto di reazione). Non c’è ateoricità.

Dal DSM-III il riferimento è stato ateorico, si cerca di definire in modo particolareggiato dei quadri diagnostici. Aumenta l’affidabilità a discapito della validità. Si inizia ad inserire un altro elemento importante → le soglie numeriche ai fini della diagnosi (ad es.: 4 sintomi su 9) → CRITERIO POLITETICO, più sintomi necessari ma ciascuno di loro non è necessario e sufficiente. Per questo motivo si può avere una notevole eterogeneità. Per esempio per un disturbo di personalità possono esserci combinazioni diverse, ma non possono avere alla base la stessa eziologia o caratteristiche di base.

Nel DSM-V è stato tolto il sistema multi assiale perché dal punto di vista clinico non era molto usata questa scala inoltre, tra il primo e secondo asse non sono state trovate differenze peculiari tali da giustificare la divisione. Il contesto e gli eventi di vita, nonché malattie mediche sono sempre da considerare anche se non rilevate nel sistema multi assiale.
1. Raccogliere tutti gli indizi diagnostici (relazione, osservazione, motivazione), si iniziano a profilare ipotesi. Dopo aver raccolto indizi si possono ipotizzare disturbi più probabili rispetto ad altri a seconda dell’area che via via si è andata a toccare ogni macroarea ha una base di riferimento.
2. Ricercare i criteri diagnostici, in base alle idee ipotizzate.
3. Anamnesi psichiatrica: valutare il background, la gravità (alterazione del funzionamento).
4. Diagnosi
5. Prognosi


Per le fasi del processo diagnostico non c’è un’iter prestabilito ma bisogna pur sempre mantenere la leadership.

1. Tenere conto delle motivazioni dell’incontro, della relazione e di come il paziente esprime il disagio (in maniera cosciente, specifica oppure vaga, oppure ancora con dei segni).
Il disagio dev’essere tradotto e capito. Il problema principale può essere con una sintomatologia, comportamenti disadattavi, eventi stressanti, conflitti interpersonali. A volte ci sono solo dei segni, ci si può confrontare subito oppure aggirare l’ostacolo. L’obiettivo è l’ottenimento di maggiori informazioni. Quando ci si chiarisce meglio le ipotesi si può allargare, cioè chiedersi se ci sono altri fatti, sintomi o comportamenti. Sintomi specifici possono far parte di macroaree, ma i sintomi accessori fanno parte delle stesse macroaree o altre? Esame di stato mentale, in più disagio lamentato, disagio psicosociale. Se un paziente riferisce sintomi ansiosi o evento stressante potrebbero essere indagate aree relative all’ansia, disturbo post-traumatico da stress, possibile lutto con reazione d’ansia.

2. Una volta stilata una lista di ipotesi diagnostiche si devono ottenere conferme o disconferme. Cercare di allargare le ipotesi. È da tenere in considerazione il criterio temporale cercando di essere non troppo rigidi. Verificare la presenza di sintomi essenziali con domande specifiche. Un sintomo è essenziale se necessario ma non sufficiente. Servono anche sintomi accessori ai fini della diagnosi. Valutare se c’è uso di sostanze. Valutare se ha allucinazioni, deliri o comportamento disorganizzato (attenzione a come fare le domande). Per i disturbi d’ansia valutare l’allarme, disturbi ossessivi… ’25. Determinare segni e sintomi. Stabilirne la gravità. Ricercare i sintomi accessori. Nel manuale diagnostico c’è una soglia, numero minimo di criteri che devono essere soddisfatti. Tenere in osservazioni sintomi che non interferiscono con la sua vita. Sintomi essenziali ma brevi, non soddisfano il criterio temporale, ma la diagnosi va fatta perché sono gravi. Sintomi essenziali + accessori non in numero sufficiente, lo si valuta ma come disturbo altrimenti specificato. La proposta del DSM-V era stata quella di abolire i disturbi di personalità facendo riferimento a tratti di personalità che in maggior o minor misura erano presenti trasversalmente. Soggetti con disturbi di personalità di fronte a stimoli rispondono in modo disadattivo. Queste modalità si manifestano in almeno due aree tra: cognitivo, affettivo, personale e controllo degli impulsi. Rispetto i disturbi clinici, quelli di personalità possono essere dei residui di un disturbo clinico, secondo altri un precursore e in ultima istanza in comorbilità con disturbi clinici.

Tratto da PSICOPATOLOGIA DIFFERENZIALE di Veronica Rossi
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