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La Cina tra gli anni ’50 e il ’60


Tra il ’50 e il ’60 si venne delineando un contrasto sempre più grave fra le due maggiori potenze comuniste, l’Unione Sovietica e la Cina. Mentre l’URSS si proponeva come garante di un ordine mondiale bipolare, la Cina di Mao Tse Tung tendeva ad appoggiare la causa dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo. La diligenza comunista cinese varò nel ’58 una strategia che fu definita “del grande balzo avanti”, consistente in una generale razionalizzazione produttiva. Le cooperative furono forzatamente riunite in unità più grandi, le “comuni popolari” che dovevano tendere all’autosufficienza economica. L’esperimento fu un colossale fallimento: la produzione agricola crollò, provocando una spaventosa carestia. La rottura tra le due potenze comuniste divenne sempre più esplicita. Fra il ’66 e il ’68 nella cosiddetta rivoluzione culturale, una rivolta giovanile richiamandosi al pensiero di Mao contestava ogni potere burocratico e ogni autorità. Gruppi di giovani guardie rosse mettevano sotto accusa insegnanti e politici, molti dei quali vennero internati in campi di rieducazione e sottoposti a torture fisiche e psicologiche. La rivoluzione culturale si esaurì nel giro di due o tre anni, quanti furono necessari per eliminare i dirigenti contrari alla linea Maoista, poi le guardie rosse furono allontanate dalle città. Chou En Lai ricopriva allora la carica di primo ministro e avviò una linea di normalizzazione anche in campo internazionale. La nuova linea si tradusse in una clamorosa apertura agli Stati Uniti, sancita nell’estate ’72 da un viaggio del presidente americano Nixon a Pechino e dall’ammissione all’ONU della Cina comunista.

Tratto da PICCOLO BIGNAMI DI STORIA CONTEMPORANEA di Marco Cappuccini
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