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Riassunto 
L’argomento di questa tesi nasce dall’esperienza congiunta di rievocazione storica ed 
archeologia sperimentale che ho maturato con gli anni. Appassionato di rievocazione dal 2007, 
ho praticato (e continuo tuttora a praticare) la scherma ed il reenactment relativi a svariati 
periodi della storia della Sardegna: il periodo medioevale (giudicale), quello romano-imperiale 
e da ultimo quello nuragico. La necessità di avere maggiori informazioni, non disponibili 
tramite le fonti scritte, iconografiche e archeologiche legate sopratutto a quest’ultimo periodo, 
mi ha portato con gli anni a pormi ulteriori quesiti sull’argomento. 
Quella dei nuragici era una società pacifica? In caso contrario come combattevano i suoi 
guerrieri? Che tipo di struttura gerarchico-militare avevano? Le risposte a queste domande 
diventavano sempre più impellenti man mano che mi confrontavo con il pubblico (e spesso con i 
pregiudizi legati a questo lontano periodo). Desideroso di avere delle risposte, coadiuvato 
dall’esperienza di artigiano-archeotecnico del bronzo che porto avanti nei ritagli di tempo, 
ispirato da studi sulla cosiddetta “archeologia del combattimento” e dalle tecniche forensi 
applicate nell’archeologia, sono giunto a conclusione che solo studiando i resti umani di quegli 
uomini vissuti 3000 e più anni fa, avrei potuto ricavare maggiori risposte alle mie domande.  
Nel presente lavoro ho esaminato i casi più noti in letteratura di reperti scheletrici con 
visibili segni traumatici, ponendo particolare attenzione ai periodi preistorici. Come paragone 
per lo studio dei reperti nuragici è stato utilizzato lo scheletro di un presunto soldato 
medioevale, il quale presentava diversi traumi da combattimento. I resti ossei nuragici 
consistono in tre crani appartenenti a tre diverse sepolture collettive localizzate in aree della 
Sardegna tra loro molto distanti. Per questi tre casi si è provveduto a determinare il tipo di 
trauma osservato, che tipo di arma ha provocato la ferita e lo scenario ipotetico 
dell’aggressione che ha interessato ciascun individuo. Lo studio di questi casi ha permesso una 
ricostruzione delle modalità di combattimento più verosimili per tale periodo; queste hanno 
permesso di dedurre quali ferite e in quali aree del corpo si potrebbero riscontrare più 
frequentemente i traumi. La riproduzione dei traumi mediante prove d’archeologia sperimentale 
(test di taglio) hanno permesso di capire quali lesioni potrebbero essere prodotte da alcune 
specifiche armi dell’età del Bronzo. Come ultima analisi sono stati elencati i principali casi di 
trapanazioni craniche per poter determinare se tali pratiche siano da mettere in relazione a 
traumi conseguenti ad episodi violenti o a pratiche etnoiatriche.
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Introduzione 
In un celebre passo del suo testo più famoso, Giovanni Lilliu scrive: <<Dire architettura 
militare e dire nuraghi è la stessa cosa. E dire nuraghi e dire Sardegna è anche, entro certi 
limiti, la stessa cosa.>>
1
 Per decenni le teorie riguardanti l’organizzazione sociale e le forme di 
coesistenza tra le varie popolazioni nuragiche sono state sviluppate sulla base di questo assioma. 
Un altro tema fondamentale riguardante la bellicosità delle genti nuragiche è quello legato 
all’interpretazione della bronzistica figurata, attribuita o meno allo stesso periodo di costruzione 
delle torri a seconda dei diversi autori. Un altro aspetto della questione veniva rappresentato dai 
ritrovamenti di armi in bronzo all’interno dei nuraghi. Tutti questi elementi sono stati utilizzati in 
passato per avvalorare o confutare una o l’altra delle due principali correnti di pensiero 
riguardanti il “carattere” della civiltà nuragica, una militarista e l’altra pacifista
2
. Mentre il 
dibattito si avvitava sull’interpretazione della funzione dei nuraghi, scarsa attenzione è stata 
dedicata allo studio ed alla ricerca dei campi di battaglia dell’età del bronzo, delle fosse comuni, 
dei villaggi incendiati dagli assedi o delle fortezze espugnate durante le campagne militari. Gli 
studi antropologici su traumi e segni di ferite da combattimento risultano ancora pochi, per lo più 
riferibili al periodo prenuragico, oppure al periodo storico; nel presente lavoro è stato compilato 
un breve elenco dei più noti esempi di tali periodi, e una disamina sulle prime attestazioni di 
episodi violenti nella preistoria dell’uomo. Oggetto di questa tesi è la ricerca di esempi che 
evidenziassero l’uso di armi sui reperti osteologici di periodo nuragico valutando se questi 
potessero essere ascritti a fenomeni violenti isolati (omicidi, agguati, eccetera) oppure a vere e 
proprie azioni di guerra identificate come tali per l’uso di armi appositamente progettate allo 
scopo. Come metro di paragone per l’impostazione da adottare relativamente allo studio dei 
reperti nuragici è stato preso il caso di un uomo di epoca medioevale rinvenuto sotto le macerie 
di un fortilizio dello stesso periodo. Il soggetto in esame si è rivelato fondamentale per 
comprendere le dinamiche con cui le ferite potevano esser state inferte e per comprendere le 
potenzialità offerte da un’accurata ricostruzione dei fatti sulla base degli indizi trovati. Tali 
ricostruzioni non sono sempre state possibili sui reperti nuragici, vista la natura dei parziali 
rinvenimenti ossei. Sempre riguardo al periodo nuragico, per comprendere che tipo di segni si 
sarebbero dovute rinvenire sui reperti osteologici, sono stati eseguiti dei test di taglio (Test 
Cutting) con armi in bronzo e in ferro, riproduzioni museali accurate e verosimili di armi 
dell’epoca studiata. Su queste armi sono stati osservati eventuali segni lasciati dall’impatto, per 
poter effettuare un confronto con i reperti originali ascrivibili allo stesso periodo. A questo 
                                                             
1
 G. Lilliu (1967) p. 288. 
2
 A. Depalmas (2006).
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approccio sperimentale ne è seguito un altro, legato alla sperimentazione pratica riguardante 
l’ipotetico stile di combattimento desumibile dalle armi studiate e dalle informazioni presenti nel 
ricco apparato iconografico. L’interpretazione delle presunte modalità di combattimento si è 
inoltre basata su una mia personale formazione marziale e schermistica acquisita negli anni, oltre 
che sulla ricostruzione sperimentale di diversi manufatti osservabili nell’iconografia. Tale studio 
è stato compiuto per poter capire che tipo di ferite si potrebbero osservare in resti osteologici 
completi, e dove tali ferite potrebbero essere localizzate più frequentemente sui corpi dei 
soggetti, di volta in volta presi in esame.  
Una rassegna dei più noti esempi di trapanazioni craniche effettuate in vita, presente in 
questa tesi, ha lo scopo di comprendere se, statisticamente, tali segni sono stati prodotti come 
conseguenza di traumi da combattimento curati in seguito chirurgicamente.
4 
 
Capitolo 1. Homo Homini Lupus 
“Chi fu il primo che inventò le spaventose armi? Da quel momento furono stragi, guerre. 
Si aprì la via più breve alla crudele morte. Tuttavia il misero non ne ha colpa. 
Siamo noi che usiamo malamente quel che egli  ci diede per difenderci dalle feroci belve.” 
Tibullo, Condanna della guerra ed elogio della pace I, 10, vv. 1-24
3
. 
 
Gli immortali versi scritti da Tibullo nel I° secolo a.C. ben esprimono il rapporto che 
intercorre tra l’animale Homo sapiens e la capacità che forse più ci contraddistingue da tutti gli 
altri primati: l’uso delle armi per ledere altri nostri simili. Un passo del lavoro di Desmond 
Morris, “La scimmia nuda” ripropone in chiave scientifica il concetto che già espresse l’autore 
latino, basato sull’osservazione di come alcuni primati utilizzino rami o zolle di terra per 
respingere l’attacco di assalitori interspecifici: “[…] le armi artificiali si sono sviluppate 
originariamente come mezzo di difesa contro le altre specie e per uccidere la preda. Il loro uso 
nella lotta interna specifica quasi certamente fu una tendenza secondaria, quando le armi erano 
già pronte e disponibili in caso di emergenza, a prescindere dall’ambito in cui questo si 
presentava.”
4
  
Forse è stato nel momento in cui i nostri progenitori hanno intuito che prendere in mano un 
attrezzo lungo e pesante determinava un vantaggio nella difesa dell’individuo o nell’attacco, si è 
formata la divisione tra il momento in cui la scimmia non era più tale, ed iniziava il suo percorso 
come “uomo”
5
. Questo concetto è stato magistralmente impresso sulla pellicola cinematografica 
da Stanley Kubric nel suo capolavoro: “2001: Odissea nello spazio”. 
 
Figura 1: un frame del famoso film di S. Kubric, "2001: Odissea nello spazio". Il momento topico è quello in 
cui il progenitore scimmiesco prende in mano un lungo osso, usandolo come se fosse una clava. 
                                                             
3
 A.Tibullo (2006) Elegie, I 10, vv. 1-24, in A. Németi ( a cura di), Elegie. Testo latino a fronte, Mondadori. 
4
 D. Morris (1967) pp. 186-187. 
5
 Il ruolo giocato dagli strumenti come motore propulsivo dell’evoluzione della specie umana è da anni al centro di 
un acceso dibattito. L’antropologo L.S.B. Leakey scrisse che fu nel momento in cui una scimmia antropomorfa 
imparò a realizzare ed utilizzare uno strumento “con regolarità e precisione” che, per definizione, divenne umana. 
L. S. B. Leakey (1961).
5 
 
Se la violenza nei primati fosse stata indirizzata unicamente verso le altre specie, 
potremmo ancora idealisticamente pensare che sia solo con l’uomo, o come suggeriscono alcuni 
con la scoperta da parte dell’uomo dei metalli (quindi in tempi relativamente recenti), che si è 
sviluppata la violenza intraspecifica, deliberata e avente come scopo primo l’uccisione 
dell’avversario. Gli studi sul comportamento degli scimpanzé (Pan troglodytes) effettuati nelle 
riserve naturali ancora esistenti in Africa, smentiscono questa visione
6
. Sono stati documentati 
attacchi di “bande” di scimpanzé di pattuglia, ai limiti dei territori confinanti con le altre 
comunità di scimmie, aventi come finalità l’espansione territoriale per l’accesso a maggiori 
risorse
7
. Queste osservazioni assumono maggiore importanza alla luce del fatto che questi raid 
producono un elevato numero di uccisioni nelle stesse regioni confinanti, interessando individui 
appartenenti al medesimo gruppo limitrofo, siano essi maschi, femmine o “infanti”. Quello che 
emerge da questi studi è che “le uccisioni tra diverse comunità di scimmie sono un tratto assai 
diffuso tra gli scimpanzé, invece che il risultato di peculiari circostanze in uno o pochi siti 
studiati (traduzione dello scrivente)”
8
 e presentano tassi di uccisione intraspecifica simili a quelli 
mostrati dalle “società umane a livello di sussistenza […] molto più alti di quelli tipici delle 
democrazie industrializzate (traduzione dello scrivente)”
9
. L’idea che sia esistita un’utopistica 
“età dell’oro”, una sorta di “eden”, in un determinato periodo della preistoria umana, è un mito 
ricorrente che trova storicamente, ad ondate alterne, seguaci e sostenitori. Il dibattito 
fondamentalmente segue le teorie proposte da Hobbes (1651)
10
 e da Rousseau (1754)
11
. Hobbes 
riteneva che la guerra sia il naturale stato della natura umana, Rousseau invece sosteneva che gli 
uomini fossero pacifici per natura. Aldilà dei discorsi puramente filosofici, il tema è decisamente 
attuale, infatti sono ancora recenti le teorie su un periodo neolitico totalmente pacifico, idilliaco, 
interrotto dalla violenza delle culture guerriere che si spostavano a cavallo dalle steppe 
orientali
12
. Anche gli studi sulla preistoria sarda non sono stati esenti da questa visione 
dicotomica. Alcuni studiosi infatti ipotizzano un periodo prenuragico totalmente pacifico, 
interrotto dall’arrivo di popolazioni portatrici di culture eneolitiche e di armi in rame, portatrici 
di nuovi e perfezionati strumenti di offesa, altri invece negano questa lettura dei resti 
archeologici. Il dibattito è assai acceso soprattutto per il successivo periodo nuragico. Gli studi, 
nei decenni passati, hanno visto il contrapporsi di due correnti di pensiero assolutamente 
                                                             
6
 M. Wilson (2012) pp. 361-388. 
7
 J. Mitani, D. P. Watts, S. J. Amsler (22 June 2010). 
8
 M. Wilson (2012) p. 370. 
9
 M. Wilson (2012) p. 370. 
10
 T. Hobbes (1962). 
11
 J. Rousseau (2006). 
12
 M. Gijmbutas (1990).