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Call center, rifugio o trappola?

Call center, rifugio o trappola?

La domanda finale inserita nella traccia dell’intervista, riconduce al titolo che si è voluto assegnare a questa tesi. Un’analisi delle risposte può essere fatta partendo dall’etimologia della parola ‘rifugio’, dal latino refùgere, composto da re (dietro) e fùgere (fuggire), che ha il significato di ‘luogo dove uno si ritira per trovare protezione’.
Per almeno tre degli intervistati il call center viene considerato proprio in questa accezione, un luogo che fornisce sicurezza e protezione da situazioni di vita occupazionale non ancora definite.
Si elencano qui di seguito le risposte, per lo più decisamente sintetiche:
“Sicuramente rifugio…non in maniera negativa quindi non trappola” (int. 01).
“Sicuramente rifugio che diventa trappola direi” (int. 02).
“Tutt’e due. Rifugio per chi non riesce a trovare un altro lavoro e trappola perché, è come in una fabbrica, una catena di montaggio” (int. 03).
“Nessuna delle due. Non è…Può diventare una trappola se effettivamente fai la stessa attività, quindi probabilmente, se sei un operatore che risponde al telefono da tanto tempo e non hai la possibilità anche solo di cambiare […]. E lo può diventare per quel riconoscimento sociale che ti dicevo prima […]. E non può essere un rifugio, perché il lavoro non dev’essere mai un rifugio. Il rifugio è casa tua, sono i tuoi figli, la tua famiglia, il tuo amore, le persone alle quali vuoi bene. Quindi no, il rifugio è un’altra cosa” (int. 04).
Per comprendere le risposte e dare un senso narrativo alle singole storie di vita lavorativa analizzate, nell’ intervista è stato chiesto di raccontare il percorso che ha portato i colleghi a lavorare come operatori telefonici in call center. E’ emerso innanzitutto, in tutte le interviste, che il mezzo primario che ha portato all’incontro con il call center (Vodafone in questo caso) sia stato il passaparola.
L’ingresso in call center è stato considerato, quasi da tutti gli intervistati, il rifugio da una condizione di incertezza occupazionale causata prevalentemente dalla mancanza di chiarezza di idee sul proprio futuro professionale, tipica nelle prime esperienze lavorative. Dunque il semplice passaparola riguardo all’opportunità di trovare impiego in un’azienda nuova e in piena crescita ha determinato tale scelta. Questa riflessione va contestualizzata storicamente considerando, sia l’età media degli intervistati al momento dell’ingresso in azienda (compresa appunto in quella fascia di età menzionata nell’introduzione di questa ricerca, 22-26 anni), sia che tra il 1998 ed il 2002 (gli anni in cui questi colleghi sono stati assunti), l’azienda Vodafone iniziava appunto a espandersi e quindi c’era una grande richiesta di personale da assumere: “Cercavo lavoro da parecchio tempo. Poi, beh, Vodafone era rinomata quando ho fatto domanda io nel 2001” (int. 01).
“Ho fatto domanda a Vodafone perché sapevo che molta gente veniva assunta in quel periodo, perché era il periodo in cui si stava ingrandendo e quindi stava assumendo parecchio personale” (int. 02).
“Ho mandato il curriculum solo in Omnitel e Infostrada che allora cercavano personale…Non avevo minimamente idea del tipo di lavoro che mi sarei trovata a svolgere, ma era vicino casa e sono andata a fare il colloquio” (int. 03).
“Trovai un annuncio sulla Sentinella che a Ivrea, in Vodafone, cercavano delle persone. Ero un po’ demotivata perché pensavo fosse una roba tipo quella della centralinista” (int. 04).
Per qualcuno dunque si è trattato di un rifugio che è considerato tale ancora oggi, nonostante tutto. Per qualcun altro un rifugio che si è trasformato in trappola perché dopo anni di risposta in cuffia e di crescenti aspettative, si ritrova ad essere al punto di partenza; un rifugio che è contemporaneamente trappola perché pur avendo acquisito le caratteristiche di una ‘catena di montaggio’ resta pur sempre un lavoro sicuro, almeno fino alla scadenza del suo contratto prevista nel 2014.
Interessante è anche il punto di vista emerso nell’ultima intervista in cui il lavoro ‘non può e non deve essere mai un rifugio’ poiché il luogo in cui sentirsi al sicuro resta la famiglia, con tutti i suoi affetti ed il suo calore, ma è piuttosto una trappola da cui è difficile uscire a causa di quel riconoscimento sociale, quell’attaccamento al brand che continua a influenzare il lavoratore anche se il brand, oggi, formalmente non lo rappresenta più in quanto non più dipendente Vodafone.
Si tratta di quell’intreccio tra presa di ruolo e presa di distanza dal ruolo che dà vita al senso di sé, un concetto elaborato da Goffman (1961) e che Kunda riprende come chiave per spiegare le reazioni dei dipendenti della Tech alle iniziative e alle pressioni dell’azienda (Kunda, cfr. Bonazzi, 172).
Una forte analogia con il caso oggetto di studio di questa ricerca in cui la presa di distanza dal ruolo si manifesta anche in reazioni emotive che Kunda definisce di “rifiuto,di spersonalizzazione o di recitazione” fino a correre il rischio del “burnout”, dello ‘scoppiare’ per lo stress provocato dai continui stimoli che il sistema azienda induce nei suoi dipendenti.
Fortunatamente il burnout non ha colpito i colleghi presi in considerazione in questa tesi, ma gli anni di dipendenza in Vodafone non hanno risparmiato episodi di questo fenomeno ad altri colleghi che non verranno qui menzionati.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Call center, rifugio o trappola?

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Informazioni tesi

  Autore: Cristina Scarimbolo
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2010-11
  Università: Università della Valle D'Aosta
  Facoltà: Psicologia
  Corso: Scienze e tecniche psicologiche
  Relatore: Massimo Angelo Zanetti
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 54

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