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Il processo di naming nel mondo videoludico

Criteri per un nome di marca efficace

I nomi di marca costituiscono una componente tipicamente rilevabile all’interno dell’ambiente linguistico giornaliero di ciascun individuo. Ci si imbatte in brand names mentre si ascolta la radio, si legge un cartellone pubblicitario per strada o si fa la spesa al supermercato. Secondo una ricerca condotta da Latour (1992) un consumatore si confronta giornalmente con più di 300 brand e non è difficile immaginare un aumento in tal senso, in riferimento al contesto attuale. Tuttavia, a causa della natura a volte effimera dei messaggi e dei nomi che si recepiscono ogni giorno, è complicato effettuarne un calcolo preciso, considerando anche la crescita esponenziale dei marchi depositati ogni anno; solo nel 2018 sono stati registrati 1˙216˙906 brand (WIPO -World Intellectual Property Organization, 2019). Nelle condizioni descritte, il nome di marca assume un valore essenziale per il successo strategico dell’impresa ed è il fattore primario attraverso cui avviene il riconoscimento del prodotto da parte del consumatore (Platen 1997; Latour 1996). Robertson (1989) fornisce, in questo senso, alcune linee guida relative alle caratteristiche suggerite per un nome di marca efficace.
Esso dovrebbe essere semplice da pronunciare, da scrivere e da ricordare; inoltre dovrebbe essere distintivo, significativo e suggestivo; infine, dovrebbe avere la capacità di comunicare in maniera rapida al consumatore informazioni riguardanti gli attributi del prodotto e i benefici soddisfatti. Non molto diversamente, Keller (2005) rimarca l’importanza di attributi quali memorabilità, significatività, piacevolezza, trasferibilità, adattabilità e tutelabilità del nome. Inoltre, come spiega Semprini (1995), i brand diventano mediatori tra lingue e culture diverse; pertanto, i nomi di marca e di prodotto devono essere strategicamente progettati in maniera da essere attrattivi e memorabili per consumatori aventi background culturali anche molto eterogenei. Per esempio, la popolare marca di gelati di proprietà della Unilever è conosciuta sotto nomi diversi nei vari paesi in cui ê presente; in Italia ê “Algida”, in Germania ê “Langnese”, in Olanda ê “Ola”, nel Regno Unito e in buona parte del continente asiatico ê “Wall’s”, ecc. (Edelman, 2009). Allo stesso tempo, la proprietà transnazionale di alcune lingue come l’inglese e lo spagnolo, insieme a una sfumatura dei confini culturali occidentali, permette alle imprese e ai comunicatori di fare affidamento su una serie di modelli culturali comuni che condizionano comportamenti, attitudini e valori estetici anche a livello individuale (Tufi e Blackwood, 2010). Conducendo una ricerca relativa al mercato cinese, Zhang e Schmitt (2001) hanno sviluppato un metodo per la creazione del brand name nell’ambito del mercato internazionale.

Il metodo proposto si basa su un’analisi sia linguistica, sia cognitiva ed enfatizza l’importanza di fattori contestuali nell’elaborazione dei nomi di marca. Inoltre, a partire dall’assunto che il brand naming efficace a livello globale stia diventando un significativo argomento di dibattito nel campo del marketing, Usunier e Shaner (2002) propongono un metodo che rende possibile stabilire il valore di un brand globale sulla base di tre parametri - nome, immaginario visuale e identità testuale -e sugli attributi linguistici a essi associati (pronuncia, significati collegati, aspetti connotativi, denotativi e retorici). Cotticelli Kurras et al. (2012) hanno esplorato le strategie di naming di Lush con lo scopo di valutare se gli strumenti di marketing a disposizione dell’impresa e gli aspetti linguistici del nome di marca possano contribuire alla formazione di un’immagine di marca solida e coerente. Un’indagine in merito alla prospettiva dei consumatori è stata fornita da Lowrey et al. (2003). Gli studiosi concentrano il loro lavoro, nello specifico, sulla correlazione tra la presenza di particolari aspetti linguistici nei nomi dei brand e la loro memorabilità. Ciò che è emerso dalla ricerca è che, per la maggior parte dei casi, sono osservabili vantaggi in tal senso solo nel caso in cui il nome risulti poco o per nulla familiare ai rispondenti. Inoltre, è stato rilevato che pertinenza semantica, paronomasia e lettere iniziali occlusive influiscano positivamente sulla memorabilità. In modo simile, Miller e Toman (2016) esplorano il collegamento tra alcuni meccanismi linguistici inseriti all’interno di slogan e l’efficacia di questi ultimi, rilevato mediante la raccolta di feedback da parte del pubblico.

Tra gli altri, l’uso di allitterazione, iniziali occlusive, giochi di parole e frasi ben note al pubblico costituivano quelli più comunemente riscontrati. Ferrari (2017) afferma che il nome giusto non è quello che piace, ma quello che funziona e assolve ai 7 compiti necessari alla costruzione di un brand di successo. Tali compiti prevedono l’identificazione della proposta commerciale, lo stabilimento di una differenziazione con i competitor, la personalizzazione della marca in modo specifico, la facilitazione della comunicazione d’impresa, la protezione del marchio dalla contraffazione, la capitalizzazione degli investimenti negli anni e, infine, l’ottimizzazione del valore del brand. Secondo la studiosa, non ê compito del nome “spiegare” il prodotto. Scegliere un nome di marca esplicativo si rivela spesso un limite, se non, in certi casi, un vero e proprio rischio su diversi fronti. Sotto l’aspetto legale, più il nome utilizzato si avvicina al prodotto, meno è tutelabile, mentre sul piano linguistico vi è la possibilità che il nome utilizzato, descrittivo del prodotto, appartenga a una lingua specifica e sia quindi meno adatto a un contesto di mercato internazionale. Inoltre, a livello di marketing, più la proposta commerciale è intuibile nel nome, più si circoscrive una sua possibile evoluzione nel lungo periodo. Tuttavia, pur essendo meno coinvolgente e più banale, un nome esplicativo è molto facile da associare alle qualità fisiche e funzionali dell’offerta. Si inserisce in un discorso più generale, invece, la metodologia DESC, la quale costituisce un approccio atto allo sviluppo del brand naming che si suddivide in quattro fasi. La prima di queste comprende la definizione della direzione (D) della marca e, dunque, di quello che si vuole comunicare con il nuovo nome, oltre al modo in cui si vuole esprimere tale messaggio; in altre parole, si progetta lo stile e la forma del nome tenendo conto del contesto di mercato nel quale andrà inserito. Il secondo passaggio prevede un’esplorazione (E) e consiste nell’elaborare fasi creative interne all’ambito aziendale ed esterne (con namewriters specializzati). La terza fase consiste in una selezione (S) dei nomi emersi in base a criteri linguistici (pronuncia e associazioni nei diversi idiomi), di marketing (coerenza con gli obiettivi di branding) e in merito alla proprietà intellettuale (disponibilità del marchio e del domain name). In ultimo, viene effettuato un controllo (C) riguardo la validità del nome finale, attraverso verifiche linguistiche approfondite, eventuali indagini presso i consumatori e analisi legali per la registrazione del nome (Ferrari, 2017).

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il processo di naming nel mondo videoludico

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Informazioni tesi

  Autore: Nicholas Caputo
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2018-19
  Università: Università degli Studi di Urbino
  Facoltà: Scienze della Comunicazione
  Corso: Scienze della comunicazione
  Relatore: Lorenzo Giannini
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 91

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videogiochi
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