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Palazzo Coccina Tiepolo Papadopoli e il pittore Cesare Rotta

Il periodo storico artistico e i maggiori artefici che operano nel Veneto a cavallo dell’Ottocento e coevi di Cesare Rotta

Le condizioni economiche generali di Venezia nei primi decenni dell’Ottocento sono difficilmente equivocabili: il difficile equilibrio dei porti e delle manifatture su cui si reggeva la sua economia vennero meno, e si frantumeranno definitivamente tra il 1813 e il 1817, a causa del blocco continentale e la terribile carestia che mise in ginocchio le campagne venete.
La rivoluzione francese, con nuove idee democratiche, aveva incrinato il muro che proteggeva la nobiltà, che per sopravvivere si asserviva alla Corte di Vienna e i nuovi borghesi erano pronti a prendere il suo posto.
Le riforme napoleoniche, soprattutto quella relativa al preciso catasto, avevano innescato un meccanismo di riscossione dei tributi sulle rendite fondiarie, che l’aristocrazia veneziana non aveva mai sopportato prima e che ora era preteso per mantenere la imponente macchina statale. La pressione fiscale sul Lombardo-Veneto era la più alta dei domini austriaci. Comparti produttivi come quello laniero, auroserico (tessuti con filamenti d’oro) saponiero, vennero annientati; profonde ristrutturazioni colpirono l’intero settore secondario inoltre venne a mancare la rete di protezione costruita dalle corporazioni di mestiere; influì anche l’insufficiente rete commerciale e la scarsità dei servizi cittadini.
Venezia è ora ridotta da capitale di uno stato transnazionale a capoluogo di un dipartimento, sotto il Regno d’Italia.
Successivamente risalì faticosamente a co-capitale del Lombardo Veneto e conobbe una delle più profonde crisi demografiche della sua storia, perse nell’arco dei primi due decenni del secolo qualcosa come un terzo della sua popolazione, una falcidia paragonabile a quella delle pestilenze cinque-seicentesche.
Il terzo decennio del secolo, quello per intendersi delle demolizioni dei palazzi e delle drammatiche descrizioni di migliaia di indigenti, costituì il momento più buio di Venezia.
I due fatti che potrebbero aver influito in maniera differente rispetto al passato e che probabilmente ampliarono gli effetti della crisi furono la soppressione del sistema delle Arti, seppure questa conseguenza fosse stata evidenziata ma per la quale non si valutarono le conseguenze, e l’abolizione del calmiere sui generi di prima necessità.

Il regime austriaco non diffondeva informazioni sui salari dei lavoratori, sulle condizioni di vita della popolazione, soprattutto quella più povera, anche se sarebbe stato doveroso farlo, visto il continuo e irreversibile peggioramento della situazione.
Fonti storiche del 1837 parlano di 40.000 indigenti su una popolazione di 100.000 abitanti, ma questo era un fenomeno latente già nell’epoca veneziana.
In realtà i 40.000 erano gli iscritti alle fraterne parrocchiali per ricevere un sussidio, le persone in povertà assoluta erano 3-5.000, questi numeri comprendendo i ricoverati nelle istituzioni assistenziali cittadine: una cifra che non si discosta di molto dal tasso consueto di marginalità di una metropoli come Venezia.
Nei piani generali dell’impero austriaco, al fine di renderlo un’unità economicamente autosufficiente, gli economisti viennesi attribuivano al Veneto il ruolo subordinato di un paese fornitore di materie prime.
Altre parti dell’impero invece, avevano il privilegio di essere considerati centri di produzione manifatturiera. Le merci provenienti da queste zone venivano introdotte nel Veneto senza essere assoggettate alle tasse d’importazione e quindi potevano vincere facilmente la concorrenza della produzione locale. L’Austria non fece nulla per camuffare la situazione di sfruttamento economico e di status quasi coloniale del Veneto.
I proventi attinti dall’Italia Settentrionale erano vitali per l’economia austriaca, poiché la Hofkammer (Ministero delle Finanze) era oppressa da un deficit annuale cronico di dimensioni preoccupanti.
Il debito dello Stato austriaco divenne sempre più gravoso col passare degli anni e le entrate fornite dalle province Lombardo-Veneto furono un mezzo vitale per Vienna.
Ma dai primi anni trenta, in virtù di una rinnovata vitalità commerciale la situazione migliorò per: la concessione del porto franco, la progressiva espansione di una rete di servizi a carattere pubblico, e soprattutto per il prosperare delle imprese statali come la Manifattura Tabacchi, la Zecca e l’Arsenale, dove in quest’ultima la parcellizzazione delle mansioni e dei processi costruttivi aveva portato alla formazione di linee produttive quasi di stampo tayloristico.
A questo si aggiunse un periodo di buoni raccolti agrari e la soppressione del dazio sui cereali che transitavano per lo scalo dell’isola di San Giorgio, inoltre dal 1830 furono tolti anche quelli destinati all’approvvigionamento della città, questo generò una situazione che consentì enormi profitti al ristretto gruppo di mercanti della piazza.

Murano, dove era stata spostata una produzione industriale pericolosa, conobbe un florido periodo e diede lavoro a maestranze specializzate.
Tanti bozzetti di arte pittorica dell’epoca mostrano viaggiatori stranieri che, giunti sotto la Torre dell’Orologio, ad un cenno di mano si vedevano accorrere frotte di nullafacenti che si offrivano per un servizio. Manodopera fluttuante, anzi sfuggente, in grado di spostarsi repentinamente da un settore all’altro in caso di bisogno “economia sommersa”, lavoro grigio o più spesso nero che operava però alla luce del sole.
Si innescò nuovamente il meccanismo virtuoso della crescita che, con numerose cadute intermedie e successivi aggiustamenti, produsse una rincorsa che durò a lungo, per oltre un secolo.
Le vie delle migrazioni, dalle montagne verso la pianura, che venivano percorse più volte e non solo in un’unica direzione, era il filo sottile che legava Venezia in mezzo alla laguna, all’entroterra e alla più vasta regione alle spalle di questa.
Iniziò una fase di “terziarizzazione” della città con la creazione di una serie di infrastrutture come: macelli, scuole, tribunali, carceri, ospizi, teatri e di reti di servizi come gas, acquedotto, porto, ferrovia che innalzarono l’immagine di Venezia a metropoli terziaria.
Il senso di “novità” consistette più che altro nella capacità dei ceti dirigenti locali di adattarsi, seppur tra difficoltà e resistenze, alle nuove esigenze dettate dal progresso del sistema dei trasporti e dei servizi urbani.
Si affermò il turismo come vera e propria industria, diventando una destinazione “culturale” che si rivelerà la linea vincente anche nel ventesimo secolo.
Riprende quota lentamente il settore manifatturiero che manterrà come caratteristica di base la convivenza con un largo comparto artigianale.
Il prefetto Luigi Sormani Morette, nella sua monografia edita nel 1880 notava come molti mestieri manuali, a differenza che in altre città, erano svolti da gente non del posto, ma questo l’aveva già scritto nel Quattrocento Philippe de Commynes e gli faceva eco il diarista patrizio Girolamo Priuli, riflettendo che, ad eccezione dei nobili e di alcuni cittadini “tutti gli altri sono stranieri e pochissimi veneziani”.

Venezia dunque, al pari ma forse più di altre città, è come un polmone che si riempie e si svuota di gente al ritmo delle stagioni e delle congiunture economiche, è inoltre capace di sfamare gente di un’ampia regione rurale che supera i semplici confini amministrativi veneti. Un nuovo
assetto sociale prende piede, in cui le gerarchie dipendono dallo status di prestigio e non dalla ricchezza.
Si sviluppa un processo di borghesizzazione dipendente dai meccanismi di aggregazione sociale, si registra la fusione di diversi gruppi professionali in un’entità sociale dal profilo omogeneo sebbene diversificato, per esempio alcuni nobili sono compresi tra gli impiegati e gli studenti, ed i possidenti appartengono a molte altre classi, che possono rientrare nelle categorie degli Ecclesiastici, dei Medici o degli Avvocati.
La borghesia dei Papadopoli, Giovanelli, Errera, Ravà, Reali, Comello, Treves, Levi, Ivanchich, Oexle, Bigaglia ecc. erano uno nucleo ristretto di famiglie e uomini collocati ai vertici di vari settori economici, di diversa provenienza sociale, geografica, anche religiosa.
Il percorso di promozione economica e sociale di queste casate aveva seguito pressoché le medesime traiettorie: un’origine ed una base patrimoniale in un comparto produttivo dinamico come il commercio di prodotti agricoli o la manifattura, una diversificazione immobiliare e quindi presuppone l’ingresso nel mondo della finanza o nelle compagnie di assicurazione che erano le nuove protagoniste della scena.
Il titolo nobiliare appare più il suggello di una posizione di vertice già acquisita nella società, che la tappa di promozione sociale.
Questo tipo di percorso non presenta diversità rispetto ai consueti meccanismi di ascesa sociale degli strati imprenditoriali che appartenevano ai ceti medi d’antico regime.
Non tanto per la tensione verso il titolo nobiliare, quanto per tutta una serie i comportamenti: l’acquisto di un palazzo, eventuali investimenti in beni artistici, una certa presenza nella società di relazioni, l’inserimento in organismi rappresentativi dell’imprenditoria, ma anche la scansione genealogica del ciclo famigliare di ascesa sociale.
Sono questi una serie di comportamenti che ricalcano quelli dell’ampio, ceto di mercanti e imprenditori, non nobili, che alla fine del ‘500 tenne le fila dell’economia della Repubblica di Venezia.
I nuovi borghesi aspiravano ad essere ammessi a corte quanto i loro predecessori agognavano un banco in Maggior Consiglio, questo perché la borghesia ottocentesca, non sarebbe riuscita a svilupparsi in forma autonoma, perché non poteva identificarsi con i valori e stili di vita aristocratici.
Un punto di coagulo della borghesia era la rappresentatività nella Camera di Commercio, che fungeva da filtro tra le istanze della classe imprenditoriale con la corte imperiale.
Nel dizionario delle Belle Arti del disegno del 1700 edito a Bassano del 1797 Francesco Milizia puntualizza: “che conviene avere riguardo alle convenienze che le cose hanno fra loro e con il tutto. Conviene anche avere riguardo alle convenzioni, cioè ai costumi e agli usi stabiliti. Tutto ciò è nulla senza la semplicità e l’eleganza. La varietà è necessaria; ma varietà non è affollamento e complicazione di oggetti”.
In palazzo Manin intervengono pressoché tutti i protagonisti della decorazione veneziana tardo settecentesca: ornatisti, pittori di generazioni diverse accumunati dal medesimo linguaggio, come dimostra la trasformazione stilistica del tiepolesco.
Il quadraturismo settecentesco, il classicismo dei “cammei” che connota le decorazioni dell’ultimo settecento, con grifoni e sfingi, ghirlande e festoni stilizzati, medaglie e citazioni. Nei palazzi trovano applicazione motivi di loggiati con colonne di marmo variegato con sfondi sia di architetture, sia di giardini che ritroviamo a Venezia.
Negli ultimi anni della prima dominazione austriaca del Veneto (1798 -1805) quando si attuano importanti interventi di restauri si esibiscono i fasti delle famiglie mettendole in relazione con il Sacro Romano Impero con finte colonne ornate da insegne militari, motivi di grottesca.

I modi della pittura decorativa elaborati nell’ultimo Settecento sia nel campo dell’ornato sia del figurismo, marcatamente classicista, subiscono una trasformazione con l’annessione del Veneto al Regno Italico (1805).
La riforma dell’Accademia di Belle Arti nel 1807 e con l’imporsi dello stile Empire diventano i dati caratterizzanti. Venezia era ormai parte dell’impero: Napoleone fa delle Procuratie Nuove e della Libreria Marciana la sua reggia e Venezia entra nel novero delle altre dimore imperiali, come quella di Milano da dove arrivano suppellettili e mobilia.
Vengono fatti lavori per omaggiare Venezia mutuando dal mondo marino con Nettuno, tritoni e delfini, trionfi di pace con le Virtù cardinali e le Muse, medaglioni con Amore ed episodi mitologici, le Arti.
A questo si intrecciano decori con elementi stilizzati di figurette dì animali e geni alati ricavati dall’eleganza di Ercolano anche nell’accostamento dei colori. La tecnica esecutiva impiegata negli affreschi non è a “buon fresco”, quindi è facilmente deperibile.
Negli interventi pittorici era riservata la zona alta delle pareti e la volta, con prevalenza dell’apparato ornamentale con stemmi, trofei e figure di vittorie.
In linea con le esigenze di un regime che si identificava con una sola persona con la rappresentazione delle gloriose gesta di sua maestà imperatore e re e dei dipartimenti del regno. Cosicché la pittura ornamentale era “salita al più alto meriggio”.
L’ornatista e scenografo veneziano imita quasi alla lettera i modelli francesi, nel desiderio di compiacere la committenza sovrana che amava ritrovare nelle sue regge europee le medesime espressioni decorative, sfarzose ma di rigoroso impianto geometrico.
La figura dell’ornatista prevale sul figurista per cui si impone quel repertorio sovraccarico di elementi tipici dello stile impero (vittorie e geni, tempietti, armi, palmette e girali stilizzati, candelabre con motivi di grottesca…), che si ritrovano come fosse un prodotto in serie pressoché inalterato da una dimora all’altra.
Frequenti sono le allegorie di adulazione imperiale raffiguranti Napoleone e le sue vittorie. Vengono rappresentate vicende sia tragiche, sia festose, con Bonaparte osannato dalla folla, ricalcando il modello illustre del “Sacrificio di Ifigenia”, rappresentato da Tiepolo in Villa Valmarana a Vicenza, con gli astanti che fanno capolino fra le colonne.

Gli affreschi sono dipinti ad altezza d’uomo, i personaggi rappresentati entrano quasi a far parte della vita quotidiana del palazzo, dove la nobiltà di provincia vive il lusso con garbo e misura. Venezia celebra eventi storici legati ai francesi e i committenti, legati alla nobiltà napoleonica, rinnovano gli interni dei palazzi; lo stesso Canova collaborerà.
I due artisti che danno prova di rispettive specialità sono Carlo Bevilacqua nella figurazione dello slanciato “neo Parmigianino” e Giuseppe Borsato nelle ideazioni prospettiche scenografiche. Le scene sono concepite come quadri riportati sulle pareti, con sfondi paesistici accompagnati da una fitta ornamentazione.
La tipologia della decorazione neoclassica rifletteva bene la sensibilità “domestica” sia della borghesia sia del patriziato, non sorprende che un’esponente dell’antica famiglia degli Zen si faccia ritrarre nel 1807 da Bevilacqua mentre suona la chitarra, una attitudine per la quale l’opera verrà attribuita a Goya.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Palazzo Coccina Tiepolo Papadopoli e il pittore Cesare Rotta

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Informazioni tesi

  Autore: Giuliana Rotta
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2018-19
  Università: Università degli Studi di Verona
  Facoltà: Beni culturali
  Corso: Lettere
  Relatore: Valerio Terraroli
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 395

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