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Storie figurate. Relazioni icono-testuali nel libro veneziano del Cinquecento

La Serenissima in persona. Evoluzione del Mito di Venezia nelle sue personificazioni

In un arazzo del 1571 realizzato su cartone di Jacopo Tintoretto, oggi al Museo di San Marco, il doge è incoronato da una Vittoria e introdotto da una Venezia al Redentore assiso in trono. Assistono Santa Giustina, patrona della battaglia di Lepanto, Luigi, eponimo del doge, ed il patrono Marco. L’iconografia si inscrive nell’ampio filone dei dipinti apologetici in celebrazione del doge, dove questi é solito inchinarsi alla Vergine o a San Marco (Fig. 31); qui però, alla luce di Lepanto, la personificazione di Venezia, quasi mai presente in questo genere di rappresentazioni, ha il ruolo di mediatrice tra Mocenigo e Cristo, che regge la sfera ed è pertanto ascrivibile al tipo iconografico del Salvator Mundi. Venezia, con il trionfo militare, ha rispettato la sua praedestinatio. Gioca dunque nel nostro discorso il ruolo di controparte ideale del malefico rettile, impersonata secondo l’antico schema dall’aquila nelle sue varianti di uccello del sole (nella scelta del nobile rapace come emblema da parte di Carlo V non possiamo che leggere una predizione del trionfo). Questa retorica si cristallizza nel momento in cui lo Stato adotta uno stratificato codice semantico che può iniziare a dirsi tipicamente veneziano: quando Nettuno diventa emblema dello Stato da Mar e Marte di quello da Terra, ma soprattutto quando la ritrovata mitologia classica e la riletta teologia cristiana si fondono nell’associazione di Venezia con la Vergine - a partire dall’iconografia delle Annunciazioni, rimando al mito fondativo visto sopra - e nella conseguente traslazione Vergine-Venere (basata anche sull’assonanza Venetia\Venus), come Venezia nata dalle acque ed eterno ideale di bellezza. Secondo Giorgio Tagliaferro, la storia dell’arte in particolare sembra parlare del mito di Venezia compiacendosene: anche quando sembra essere usata come fondale - pensiamo alle storie narrate nei grandi teleri di Carpaccio - è evidente che Venezia non sia un semplice luogo, ma un magico palcoscenico su cui mettere in scena eventi miracolosi. E la medesima atmosfera portentoso-allegorica, ad un più attento esame, emerge con la stessa potenza nella codificata struttura dei ritratti ufficiali del patriziato.

Volendo far luce sulla definizione, ma soprattutto sull’evoluzione del concetto di mito di Venezia, occorre fare una precisazione su cui vale la pena soffermarci: non vi sono dubbi circa la natura di sovrastruttura astorica dell’idea stessa di mito. Si tratta di una formulazione retroattiva, che vuole tenere insieme non solo la retorica encomiastica di Stato, ma anche la più umile ricerca di identità in senso comunitario, e rischia talvolta di appiattire ed uniformare le sue innumerevoli espressioni. Come tutte le formule storiografiche diventate canoni è stata spesso abusata, e la poetica romantica le ha affibbiato un ulteriore filtro da cui non è sempre facile prescindere. Specialmente nell’ambito che ci interessa, quello delle iconografie che da questo mito attingono, è innegabile l’esistenza di un clima e di un’intenzione precisa - come del resto era precisa la retorica insita nella rappresentazione del Turco -ma accogliamo il suggerimento di Tagliaferro a considerare il mito di Venezia come categoria concettuale multiforme e via via più o meno centrata rispetto al contesto e all’oggetto di riferimento. Non è detto, pertanto, che questa sia necessariamente più accentuata in opere di chiara matrice politica rispetto che in altre, o che determinati elementi iconografici utilizzati in un’opera per rimarcare alcuni aspetti di questa retorica intendano rimarcare i medesimi aspetti in un’altra, e così via. Riallacciandoci al discorso fatto sopra, l’iconografia classica della Madonna Immacolata, caratterizzata dagli elementi apocalittici della falce di luna e del dragone\serpente calpestato, può essere letta negli anni di Lepanto, proprio in virtù della sempre più forte associazione della Vergine con Venezia, come una delle tante immagini della sconfitta del Turco. Anche e soprattutto in questo caso, però, è doveroso esaminare ogni manifestazione del tema come un apparato a sé stante: sarebbe del tutto congetturale pensare ad ogni rappresentazione del rettile come ad un rimando all’Orientale, e ad ogni ripresa delle storie di santi sauroctoni come metafora delle guerre di religione; se certamente nella seconda metà del Cinquecento si tende a leggere quest’iconografia in questa direzione, esistono molte poche opere in cui questo specifico sottotesto politico può considerarsi esplicitato.
La costruzione della personificazione di Venezia si radicalizza negli anni post-lepantini e ha il potere di perfezionare i meccanismi di questa retorica. Come rilevato da David Rosand, tra il Trecento e la metà del Cinquecento, Venezia aveva assunto le sembianze di Maria Vergine, di Giustizia, della dea Roma o di una Venere ciprigna, evidenziando di volta in volta gli elementi del suo mito fondativo su cui si voleva porre l’accento.

Venezia è la Virtù che vince la Fortuna negli affreschi di villa Barbaro a Maser, è Ester paladina del popolo ebraico che domina il soffitto della chiesa di San Sebastiano, santa Caterina disposta al martirio per difendere la Fede, la dea dell’Abbondanza che garantisce ai sudditi le derrate alimentari, la Felicità che assicura un destino prospero ai suoi domini, Astrea la cui riapparizione sulla Terra segnala il ritorno dell’età dell’oro.

Così, mentre l’Olimpo classico si riversa nella rappresentazione, Venezia è nuova Roma, ugualmente eterna, nuova Gerusalemme, priva di peccato, nuova Bisanzio, continuatrice della sua missione imperiale. L’onda lunga di Lepanto influenza l’immaginario figurativo veneziano anche dopo molti anni dal trionfo. Il nuovo programma di decorazione di Palazzo Ducale, avviato dopo l’incendio che nel 1577 devastò le sale sulle cui pareti si narravano le vittorie della Serenissima sotto Sebastiano Ziani, rende la guerra protagonista di un massiccio ciclo pittorico. Il programma iconografico pensato per la sala del Maggior Consiglio, in cui si impegnano Tintoretto, Veronese e Palma il Giovane, intende essere una rielaborazione del ruolo di Venezia nella storia, in cui si opta per l'alternanza di allegorie morali ed imprese belliche. Qui il mito di Venezia viene aggiornato in senso moderno, e la vecchia decorazione lascia spazio ad un ciclo più complesso, pensato programmaticamente da Jacopo Contarini insieme al suo protetto, lo storiografo camaldolese Girolamo Bardi. Le imprese dedicate a Ziani ed alla quarta crociata devono essere ridotte, e maggior spazio dedicato alle più recenti imprese. L’ambizioso programma sarà dato alle stampe nel 1587 da Valgrisio, redatto da Girolamo Bardi col titolo Dichiaratione di tutte le Istorie che si contengono ne i quadri posti nuovamente nelle Sale dello Scrutinio, et del Gran Consiglio….

Non voglio qui entrare nel merito di un’analisi di uno dei cicli pittorici più complessi del Cinquecento veneto, di cui già molto si è scritto. Ciò che interessa ai fini del nostro discorso è il “filtro” attraverso cui si intende aggiornare la percezione di Venezia alla luce dei recenti trionfi. La Serenissima è innalzata come respublica christiana ed esempio di dignitas, in una narrazione che non vuole essere soltanto marziale e trionfalistica - così ne parlava Wolters - ma in cui la gloria è attenuata nell’ottica di una dovuta difesa dei valori repubblicani ed insieme cristiani, di misericordiosa elezione morale. Come sostiene Tagliaferro, pur rientrando naturalmente nel sistema retorico suddetto, le guerre qui rappresentate sono guerre sante, combattute eticamente per la salvaguardia del proprio stile di vita, epurate da ogni tipo di violenza e vanagloria. Il focus della celebrazione non è pertanto la potenza militare, ma la generale praedestinatio di Venezia, che inizia a percepirsi come compiuta proprio dopo il trionfo lepantino. Di conseguenza, l’intenzione, nella resa delle sue personificazioni, è quella di insistere principalmente sul parallelismo con la Giustizia in primis, e con un’idea di legittima e piena Sovranità.
Quando Paolo Caliari è chiamato a dare un volto a questa Venezia, da collocarsi nell’ovale sopra il trono dogale, si trova a dover lavorare con una stratificazione di concetti già archetipici. La Venezia regina del suo Trionfo (Fig. 32), concluso entro il 1582, sarà a lungo emblema del secolo d’oro della Serenissima. Se la fascia alta dell’ovale è dedicata alla sua apoteosi pacifica, in basso la politica della Serenissima è presentata in termini di equilibrato esercizio delle armi contro il nemico: il gruppo di cittadini affacciati ad una balaustra, che costituisce la fascia mediana e divide simbolicamente lo spazio, rappresenta la serena accettazione delle prerogative di governo da parte della popolazione. Non manca il riferimento al Turco: in basso un cavaliere abbigliato da crociato difende una donna veneziana da due loschi orientali (riusciamo a scorgerne i turbanti). Quella che a lungo è stata vista come una figura femminile di ideale bellezza, nasconde in realtà diverse novità iconografiche: Veronese è in grado di operare una magistrale sintesi dei topoi letterari e figurativi dell’apologetica pubblica veneziana, mettendo in relazione la struttura perfetta del suo governo, pienamente dimostrata negli anni di Lepanto, con le ancora imperanti caratteristiche originarie del mito della sua fondazione; il tutto rivestito di una potenza sacrale nuova nel ricorso all’assimilazione con Maria Vergine. Il risultato è quanto di più appropriato si potesse pensare nel dare vita al volto umano di Venezia, e sarà il modello più replicato fino al declino della Repubblica. Tagliaferro ci fa notare come nell’operazione di Veronese, in questa come in tutte le sue allegorie di Stato, sia presente «un criptotesto che agisce a livello strutturale e che mette gli apparati veronesiani sullo stesso piano delle orazioni dogali, dei panegirici ufficiali, delle processioni pubbliche.» Un nuovo e fortissimo legame con la letteratura ed i cerimoniali pubblici, quindi, ma che non si limita a trasporre le figure di questi in immagine: il mito di Venezia ne è trasformato, reinventato su diversi registri, e la sua Venezia personificata, sovrana, vergine, matrona, risulta convincente proprio perché polimorfa.
[...]

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Storie figurate. Relazioni icono-testuali nel libro veneziano del Cinquecento

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Informazioni tesi

  Autore: Anna Schergna
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2018-19
  Università: Università degli Studi di Bologna
  Facoltà: Beni culturali
  Corso: Arti Visive - Storia dell'Arte
  Relatore: Sonia Cavicchioli
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 300

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