33 
 
 
II 
Gerolamo Rovetta 
 
«E’ destino comune agli uomini di genio, 
 Aristide, l’Alighieri, Camoens, Fulton, Fara-Bon,  
che le loro grandi idealità,  
le loro grandi scoperte, le loro grandi invenzioni, 
 debbano imporsi e trionfare  
soltanto dopo la loro morte». 
 
  (G. Rovetta, La Baraonda, Treves, Milano, 1894, p. 38) 
 
2.1  Cenni biografici e panoramica sulle opere 
 
Gerolamo Rovetta  (Brescia, 30 Novembre 1851 – Milano, 8 Maggio 1910)
17
 fu 
scrittore, commediografo e romanziere della belle èpoque milanese. Apparteneva ad 
una famiglia di commercianti e patrioti dell’alta borghesia lombarda. Edmondo De 
Amicis racconta
18
 come, ai tempi della Repubblica Cisalpina, che tra il 1797 ed il 1802 
                                                             
17
 Il luogo di nascita è stato spesso oggetto di controversie e di congetture nel corso della storia. In realtà lo stesso autore, 
per quel che riguarda le sue origini, dichiarava in un’intervista: «Mi si crede veronese, ma io sono nato a Brescia e ci tengo 
al mio bel Duomo vecchio, alla mia torre del Pegol, al mio bel castello». Cfr. Sacchetti, Gerolamo Rovetta. Le idee, le 
azioni e gli scritti di uno scapolo illustre, in «Varietas», Milano, vol. III, 1906, n. 22, p. 138. 
Le medesime controversie sono state aperte riguardo alla data, che però fu sicuramente il 3 Marzo 1851, come conferma il 
registro battesimale di Sant’Agata in Brescia, che reca la seguente attestazione: “natus die tertia huius mensis”. Ma tale 
indicazione cronologica fu erroneamente posticipata da diversi critici, studiosi ed amici che con l’autore ebbero a che fare 
o che studiarono le sue carte. Cfr. Francesco Pagliccia, Ritratto d’autore: Gerolamo Rovetta, 1954, In «Studi Medievali e 
moderni», anno 2003, n.1. pag. 307. 
18
 Cfr. Edmondo De Amicis, Lettera ad un Americano, in «Natura ed Arte», Milano, 15 Aprile 1902, p. 651 ss.
34 
 
comprendeva gran parte delle attuali Lombardia ed Emilia Romagna, ma anche spicchi 
di Veneto e Toscana, vi fu a Brescia un certo Rovetta membro del Comitato di salute 
pubblica, il quale con perseveranza e accanimento contribuì ad una violenta repressione 
nei confronti degli allora austriacanti, tanto da venir soprannominato “vecchio 
patriota”. Era, costui, il nonno dello scrittore. Gerolamo, dunque, se non 
personalmente, contribuì quanto meno per discendenza alla lotta per l’Unità.  
 
 
Ebbe modo, da fanciullo, di ascoltare personalmente i racconti dei gesti eroici, delle 
rischiose fughe in Svizzera, delle ingiuste confische di beni e di tutto ciò che, in quegli 
anni di battaglie per la libertà d’Italia, potesse incarnare il tragico tentativo di 
divincolarsi dall’oppressione straniera. Il Rovetta crebbe ammirando i volontari 
costituire l’esercito che liberò la Penisola, la sommossa popolare diventare governo, la
35 
 
cospirazione trasformarsi in parlamento, la nazione chiamarsi Stato e dal Risorgimento 
vide nascere il regno.  
Tali ricordi e tali esperienze personali sono riscontrabili nelle sue opere teatrali come 
nei suoi scritti (soprattutto romanzi) intrisi non solo di fervori patriottici, ma anche di 
attenzione verso i fenomeni più caratteristici di quel periodo di evoluzione politica e di 
decadimento morale. Nel 1902, alludendo all’anno trascorso nella preparazione del 
dramma Romanticismo, scriveva: «Io – lo confesso – li vivevo per la prima volta quei 
giorni nei quali si rinnovavano i destini della patria»
19
. 
L’origine della sua figura è stata ed è tuttora circondata da un alone di mistero: c’è 
chi lo ha definito veronese, chi vicentino o milanese, ma difficilmente è stato etichettato 
come bresciano. Eppure, quel che è certo, come lo stesso scrittore ebbe a dire, è che egli 
nacque a Brescia il 30 Settembre 1851. Paolo Arcari aggiungeva che:  
Frequente è sul Bresciano il nome di Rovetta: è quello di una terra del contado, di 
una piazza della città, di molte famiglie. Nota una di queste nella cronaca urbana, ai 
tempi della Cisalpina, per opera dell’avo dello scrittore: naturale quindi – per 
l’invincibile amore a nostra nobiltà di sangue – che Gerolamo Rovetta si vanti 
bresciano
20
.  
 
Suo padre, tale Agostino Rovetta, anche lui patriottico signore borghese, sposò la 
benestante Maria Ghisi
21
, donna distratta dalla natura ambiziosa e dalla vita dell’alta 
società e figlia di un noto filandiere cremonese arricchitosi negli affari e trasferitosi a 
Verolanuova nel palazzo cinquecentesco di Gambara
22
.  Il piccolo Gerolamo trascorse 
                                                             
19
 Cfr. Paolo Arcari, Un meccanismo umano: saggio di una nuova conoscenza letteraria, Vol. I, L’attività apprensiva, 
Libreria editrice milanese, Milano, 1909, p. LIV. 
20
 Arcari, Un meccanismo umano cit., p. 3. 
21
 Della figura della madre ha dipinto un minuzioso ritratto Enrico Bevilacqua, il più importante biografo dello scrittore. 
Nata orfana di madre, la piccola Annamaria cresceva senza affetti, affidata al dispotico padre ed alle zie di Brescia. Fu 
allevata in un signorile collegio laico di Milano, il Garrier a San Babila. Si sposò per volontà di suo padre, con Agostino 
Rovetta, di ventitré anni più grande.  Le nozze furono celebrate il 22 Maggio 1850 e la coppia fece di Brescia la proprio 
residenza, nella centrale Piazza Vecchia, ove poco dopo nascerà lo scrittore. Cfr. Enrico Bevilacqua, Gerolamo Rovetta e 
la sua famiglia materna, Le Monnier, Firenze, 1925.  
22
 Giacinto Ghisi si traferì ventenne a Verolanuova, contrada a metà strada tra Cremona e Brescia, dove inizialmente 
esercitò l’attività di speziale. Era uomo facoltoso, perspicace e poliedrico, nonché collezionista d’arte e cultore d’antichità 
storiche. Contribuì a costruire e restaurare il famoso palazzo Gambara, del quale poi si impossessò per farne la propria 
dimora. Cfr. Bevilacqua, Gerolamo Rovetta e la sua Famiglia materna cit.
36 
 
l’infanzia nella sua città natale. Lì frequentò il collegio Peroni, dove ebbe modo di 
distinguersi per l’eleganza, ma non per l’assiduo studio. Ripeté, infatti, per tre volte una 
classe ginnasiale serbando sentimenti antibonapartisti e risorgimentali, nonché una 
spiccata passione per il teatro ereditata probabilmente dal padre. Dopo aver perso il 
padre nel 1860, dovette, appena sedicenne, seguire a Verona la madre, che intanto si era 
risposata con tale Almerigo Pellegrini, anche lui personaggio di ricca famiglia. 
A Verona, il giovane Rovetta, bello, ricco ed elegante, conduceva una vita 
spensierata. Fu affidato a pedagoghi incapaci, studiò poco e male, lasciandosi presto 
coinvolgere dalla vita di società del salotto materno, dove conobbe giornalisti come 
Dario Papa, direttore dell’«Arena»; Ugo Ojetti (con il quale divenne intimo amico), 
critico drammatico dell’ «Adige»; letterati come Aleardo Aleardi e Vittorio Bettoloni e 
altri artisti di vario calibro dei quali poté osservare ed apprendere il diverso 
atteggiamento della loro propria arte
23
. 
In tale ambente raffinato e d’alto rango riuscì a districarsi molto bene. Organizzava 
feste e si dimostrò sempre ospitale e signorile, tanto da meritarsi l’appellativo di Momi 
con il quale veniva affettuosamente identificato dagli amici più stretti. Fu tra quelle 
mura che, con ogni probabilità, videro luce le prime battute della sua commedia di 
costume che oggi potremmo definire come una sorta di affresco dell’alta società di quel 
tempo. 
Riuscì ben presto a farsi un nome tra le vie della bella città veneta, ma la sua arte 
stentava ancora a mostrarsi, finché, spinto da una ripicca amorosa, scrisse la sua prima 
commedia: Un volo dal nido, che fu rappresentata con successo il 24 Agosto del 1875 
al Politeama Milanese dalla compagnia Sadowisk. L’autore assaporò inizialmente la 
                                                             
23
 Il salotto scaligero della Ghisi non ebbe nulla da invidiare, in quanto a prestigio, a quello milanese di Clara Maffei. Da 
lì passavano spesso, tra gli altri, il ministro di grazia e giustizia Giuseppe Zanardelli ed il ministro delle finanze Giuseppe 
Natoli, allora prefetto di Brescia. Ivi.
37 
 
gioia di un vero trionfo, ma si trattò di un successo avvelenato, in quanto nessuno, 
nemmeno la donna che lo ispirò, credette che la commedia fosse davvero stata partorita 
di suo pugno: tutti sostenevano l’avesse scritta un suo amico giornalista. Ciò funse da 
spinta per il lavoro successivo, infatti, nel 1876, Rovetta fece rappresentare un dramma 
in quattro atti: La Moglie di Don Giovanni, in cui predominante è il motivo 
dell’adulterio. 
Era un giovane scaltro ed intraprendente che stava pian piano iniziando ad 
affermarsi nel mondo del teatro e non solo, partecipava a conferenze e scriveva articoli. 
Domenico Oliva, all’epoca giornalista del neonato «Corriere della Sera», che divenne 
poi amico dello scrittore, nella sua rubrica «La Lettura» lo ricordava con questo 
aneddoto risaliente ai suoi esordi:  
 
Conobbi Gerolamo Rovetta nel 1883, era già celebre. Erano passati tre anni da che 
avevo veduto per la prima volta il suo nome stampato sopra un opuscolo, una 
conferenza intitolata: Gli Zulù nell’arte, nella politica, nella vita. Nessuno oggi 
forse crederebbe questo, ma nel 1880 il Rovetta, ch’era, per sua fortuna, per sua 
tranquillità, la più perfetta negazione dell’arte oratoria, aveva pronunciato una 
conferenza in Verona. […] La conferenza era uno scherzo satirico. I Zulù erano un 
pretesto per figurare e deridere tutti quelli che ingannavano la gente, falsi letterati, 
politicanti di mestiere, ambizioncelli a caccia d’un poco di nomea e d’un poco di 
lucro, piccoli giocolieri che tentavano, mascherandosi, la sorte e più o meno ci 
riuscivano ad aprirsi il cammino
24
. 
 
Fin da questa primissima testimonianza si intuisce quale fosse la personalità dell’autore: 
non un grande oratore, ma sicuramente pungente e provocatorio nelle tematiche esposte. 
D’altronde il giovane Rovetta non aveva intrapreso studi regolari, mancava 
completamente in lui la conoscenza dei classici ed aveva poca dimestichezza con la 
lingua italiana, ma sopperiva a tali lacune grazie alla sua brillante intelligenza. Sempre 
riguardo a quella conferenza, continuava l’Oliva:  
 
Tuttavia, in queste pagine ironiche, si scorgeva garbo e bonomia e umorismo, mi 
parevano pagine che sorridessero e dettate da un ingegno fatto per la caricatura senza 
                                                             
24
 Domenico Oliva, «La Lettura» Rivista mensile del «Corriere della Sera», Anno X, N.7, Luglio 1910, p. 576.
38 
 
fele. […] Si scorgeva un’altra cosa: l’arte d’afferrare l’argomento della giornata, 
l’attualità
25
. 
Utilizzava oculatamente l’ironia e la pratica umoristica. Si dimostrò fin da subito attento 
e costante osservatore, capace di scorgere l’ampia varietà dei contrasti della vita. Era 
un gran lettore e non mancava mai di avere una proprio opinione sulla maggior parte 
dei temi che alimentavano il dibattito pubblico. Di conseguenza fu naturale il salto che 
dal teatro lo portò a cimentarsi nella stesura di saggi e poi di veri e propri romanzi.  
La crescente passione per l'arte e le disponibilità finanziarie assicurategli dalla 
eredità del patrimonio paterno lo indussero a trasferirsi a Milano, dove gli riuscì facile 
introdursi nell'alta società e dove pubblicò il suo primo romanzo: Mater dolorosa. Era 
il 1882 ed il successo fu enorme. Rovetta ricevette riscontri positivi sia dal pubblico che 
dalla critica
26
. Colui che in origine era solo uno scrittore teatrale fu accolto, così, con 
simpatia nella famiglia dei romanzieri e assaporò la fama. In occasione di alcune sue 
visite a Verona gli amici gli fecero grandi feste e fu perfino nominato cavaliere dal 
Ministro della Pubblica Istruzione. Scriveva Papa, che nei suoi frequenti ritorni a 
Verona, Rovetta trovava ad accoglierlo ed applaudirlo quegli stessi che avevano riso 
delle sue scappate giovanili: «Come ti vogliono bene tutti, a Verona! […] Qui ti si è 
visto sorgere alla luce della vita intellettuale, qui gli amici tuoi hanno intuito i bagliori 
del tuo forte ingegno!»
27
. 
La rèclame, la cui arte iniziava a prendere piede in quegli anni, fu tanto ampia, che 
l’editore Galli, presso la vetrina del proprio negozio in Galleria Vittorio Emanuele, su 
indicazione dell’autore fece esporre per più sere consecutive una copia dell’opera, il 
                                                             
25
 Ibidem. 
26
 In realtà, inizialmente faticò nel trovare un editore che volesse pubblicare il suo primo romanzo. Tutti diffidavano del 
fatto che un romanziere alle prime armi avesse potuto scrivere qualcosa di davvero interessante senza risultare pedante, 
visto e considerato che si trattava di un’opera che contava centinaia di pagine in prima stesura. Ma soprattutto lo vedevano 
come uno spreco di tempo e denaro per le stampe. Poi finalmente, grazie anche all’intelligente stratagemma architettato 
dal Rovetta stesso, l’editore Galli lo stampò e ne pubblicò le prime copie poi vendute presso la propria libreria milanese. 
27
 Dario Papa, «L’Arena», Verona, 3-4-1897; Cfr. Arcari, Un meccanismo umano cit., p. 4.
39 
 
che suscitò la meraviglia dei passanti stupiti che si accingevano ad acquistarne una 
propria. Accorse in suo aiuto anche Filippo Filippi, che con rapidità senza precedenti 
fece pubblicare, nel frattempo, un suo articolo di elogio alla Mater del Rovetta sul 
quotidiano «La Perseveranza».  
Mater Dolorosa, pubblicato con lo pseudonimo di Trubaldino, fu letto e lodato nel 
«Capitan Fracassa» perfino da Carducci, il quale non era solito recensire romanzi. 
L’opera varcò i confini nazionali e funse da sprone per l’autore, che nello stesso anno 
1882 pubblicò Ninnoli, un volume di novelle. 
Dato il successo ottenuto nella capitale lombarda, Rovetta scelse Milano come sua 
patria di elezione nella quale intraprendere il mestiere di scrittore teatrale e di 
romanziere. Soleva dire: «Milano è per tutta l’Italia un po’ quello che Parigi è per la 
Francia, il centro, il fuoco e la sirena»
28
.  Fu la città che egli amò come chi, annoiatosi 
in provincia, decide di andare a vivere la vita agitata ed attiva della grande città 
tumultuosa. Entrò in contatto con ambienti scapigliati e veristi, allacciò rapporti con 
Verga, anch’ egli giunto all’ombra della Madonnina nel 1872; con Emilio Treves, che 
pubblicò in seguito alcuni dei suoi più importanti lavori; con Marco Praga, Carlo 
Bertolazzi, Giuseppe Giacosa, Luigi Illica, Gian Pietro Lucini, Renato Simoni, Federico 
De Roberto, Paolo Arcari e Sabatino Lopez, giusto per citare alcuni nomi. 
                                                             
28
 Giuseppe Agresta, Gerolamo Rovetta, in «La Rinascenza», Milano, 1925, p. 22.
40 
 
       
«Milano è la più bella città del mondo» fa dire a Giacomino in Romanticismo. E a 
Giordano Mari nell’Idolo: «Milano non è come Venezia, colle sue arti troppo belle; a 
Milano lo spirito riposa, Milano è una buona città borghese, rivoluzionaria soltanto in 
politica… Ma in arte? I milanesi non vogliono pensare che ai loro affari». Ed in 
Principio di secolo fa esclamare al Rossini: «Quando sogno sto bene a Venezia, ma 
quando mi sveglio… mi trovo meglio a Milano».  
Più di ogni altro egli visse intensamente gli anni milanesi e lungamente ebbe modo 
di scoprire la città, offrendocene nei suoi libri un quadro completo. Dimorò inizialmente 
in un ammezzato di via Cappellari per poi trasferirsi in un primo piano di via S. Barnaba 
e solo successivamente in un quartierino di Piazza Castello, dove visse gli ultimi anni 
di vita. Durante gli anni milanesi esplicò appieno la sua instancabile attività di 
novelliere, drammaturgo e romanziere, pubblicando circa uno o due libri all’anno. 
Soleva radunarsi con gli amici alla Canetta, trattoria famosa situata all’epoca in Via 
Giuseppe Verdi: «Chi scrivesse la storia del Canetta, scriverebbe presso a poco la storia 
di Milano in quel tempo, della Milano intellettuale, politica, gaudente»
29
 diceva, non a 
caso, Giuseppe Oliva. 
                                                             
29
 Oliva, «La Lettura» cit., p. 579.
41 
 
Ma la vita, come già si è detto, non gli fu sempre facile: infatti ebbe modo di vivere 
giorni meno propizi, incontrando difficoltà di ogni genere, quali diffidenze del pubblicò, 
opposizioni da parte della critica e soprattutto difficoltà nel finanziare le sue opere
30
. 
Tuttavia non si scoraggiò mai e combatté aspramente e con fiducia, perché sentiva forte 
la spinta dei propri propositi, accompagnati da una totale tranquillità d’animo e da una 
salute di ferro. Non gli mancava il coraggio ed il lavoro non lo spaventava, nemmeno 
dopo un insuccesso. 
Dopo Mater Dolorosa si mise a studiare Dante ed i classici per arricchire le proprie 
conoscenze sotto la guida di un professore dell’Accademia di Milano, Carlo Giussani. 
Tale sacrificio da parte del giovane scrittore portò alla seconda edizione dell’opera, 
ridotta nella mole, ma migliorata nella lingua, anche se ancora lontana dalla perfezione. 
Oliva, in un passaggio del suo articolo su «La Lettura» descrive così i momenti in 
cui, in sua compagnia, Rovetta era intento a perfezionarsi nel proprio lavoro:  
 
Io passavo con lui lunghe ore, ascoltando la lettura del racconto elaborato, si può 
dire, pezzo per pezzo in mia presenza: leggeva col suo accento veneto e la sua voce 
gli si riscaldava e gli occhi brillavano dietro le lenti. […] La lingua era il suo 
tormento e nessuno può immaginare, nessuno crederebbe quanto faticasse per 
impadronirsene e per purificarla: sentiva la debolezza dello strumento e sudava a 
rinsaldarlo, sudava alla ricerca del vocabolo proprio, dell’espressione esatta e 
consacrata e correggeva e rifaceva con pazienza flaubertina
31
. 
 
In quel tempo conduceva una vita da gaudente persona oltremodo chic. Era ancora 
troppo presente, in lui, quel dilettante che era stato negli anni della primissima 
giovinezza a Verona, quando componeva per svago e poco o nulla pensava di tramutare 
                                                             
30
Nel 1882, infatti, lo scrittore riceveva un durissimo colpo dal nonno materno che lo aveva escluso dall’eredità del palazzo 
di Verolanuova sul quale erano appuntate le sue mire. Rovetta attendeva il lascito del vecchio parente per concludere il 
matrimonio con una nobildonna, una certa Mocenigo di Venezia, l’unica sua fidanzata ufficiale. Ma quando alla morte del 
Ghisi, avvenuta il 27 Novembre 1882, Rovetta apprese che il nonno aveva lasciato il suo patrimonio alla madre, fu 
un’insopportabile delusione al punto che, da quel momento, lo scrittore non fece più ritorno a Verolanuova, rinunciò al 
matrimonio e recise totalmente i rapporti con la madre. Cfr. Pagliccia, Ritratto. d’autore: Gerolamo Rovetta cit., p. 309. 
31
 Oliva, «La Lettura» cit., p. 579.
42 
 
la sua arte in una professione. Ma le difficoltà economiche lo spinsero, per forza di cose, 
a produrre e a lavorare assiduamente e con spirito di abnegazione. Occorreva si 
disciplinasse al lavoro. 
Nell’83 apparve Sott’acqua, breve romanzo la cui azione si svolge a Venezia, altra 
città a cui l’autore fu molto legato: 
 
Quella del Rovetta non è dunque la Venezia goldoniana del mezzà borghese, non 
quella galliniana delle famiglie popolari […] La sua Venezia non è inondata dalla 
pessima “retorica che sgorgò a finmane dalle nere prigioni dei Pazzi del canal 
Orfano, dai finestroni gotici del palazzo ducale”. E’ semplicemente la Venezia de i 
foresti, che non sempre arrivano tutti ricchi di denaro o di poesia di cultura e di 
sospiri
32
.  
 
L’opera piacque, anche se non quanto Mater Dolorosa, e soprattutto non al pubblico 
grosso, ma alle persone di palato più fine, grazie ad una sottigliezza umoristica e a ad 
un senso squisito del comico e del ridicolo. Scriveva Filippo Filippi in una recensione 
di Sott’acqua sull’«Illustrazione Italiana», che Rovetta pareva veneto di spirito: di virtù 
e di difetti: «Ha quell’humor speciale di noialtri veneti […] ameno come una conversazione 
di donnine veneziane piene di morbin e di ciacolezze un po’ malizioso».
33
 Su «La Sera» di 
Milano, lo stesso Filippi tornava sull’argomento affermando in maniera perentoria: 
 
G. Rovetta è veneto di nascita e di temperamento: indolente e arguto come lo è quel 
popolo raccolto in un breve angolo di terra, tutto bellezza di tinte e di panorami, quel 
popolo che ignora il moto agitato delle grandi città, che ha il suo classico Florian, 
luogo di ciarle e di pettegolezzi, e che ha dato all’arte un Goldoni e un Favretto, i 
pittori eleganti delle sue belle piazze, delle sue belle donne, della sua gaia vita 
superficiale. Non chiedete ad un artista che esce da questa razza e che e conservi le 
caratteristiche di preoccuparsi di ciò che vi ha di serio, di quasi tragico 
nell’esistenza: i problemi morali che agitano e logorano le coscienze moderne
34
. 
 
 
                                                             
32
 Arcari, Un meccanismo umano cit., p. 6. 
33
 Gustavo Marchi – in «Vita moderna», Milano, 26-6-1892, aggiungeva che «l’arguzia, lo spirito leggermente caustico 
d’osservazione sono caratteri – per quanto il Rovetta si vanti bresciano - veneti». 
34
 Filippo Filippi, «La sera», Milano, anno 1, N. 86; Cfr. Arcari, Un meccanismo umano cit., p. 7.
43 
 
                 
Questi attestati di stima così sinceri che diversi critici e amici nutrirono nei confronti 
dell’autore, da un lato mettono in luce la centralità della sua figura nel panorama 
letterario lombardo-veneto di fine secolo, dall’altro rendono più comprensibili alcuni 
abbagli in merito alle sue origini. Chi non provvedesse ad un accurata analisi delle fonti 
biografiche su Rovetta, dunque, facilmente potrebbe incappare in falsi storici.    
Quella che portava in scena con le sue prime opere nei teatri milanesi era, invece: 
 
una Milano da strapazzo, da gigante festivo, da visitatore frettoloso. Il Rovetta è 
iniziato a maggior conoscenza della illustre metropoli: ne ricorda tutte le 
trasformazioni esteriori, dalla mostra del 1881 al principio dell’epidemia dei 
manifesti colorati nel 1882: ha visto il risalire della Cannobbiana a nuove sorti ed il 
decadere dell’Alhambra da teatro d’operette al monopolio di comizii politici;  sa che 
non si firma una cambiale al Cova e che non si presenta un letterato al Campari; 
qual è il mondo dell’Arena nuova e qual è il prezzo fisso del Rebecchino; per 
pochades scomunicate vi conduce fino alla Commenda e per le conferenze letterarie, 
prima del trasloco della Famiglia artistica, vi fa svoltare dal Corso nella “via San 
Paolo angusta e tetra”
35
. 
 
 
L’esperienza delle piazze, delle strada e dei quartieri faceva sì che riuscisse a foggiarsi 
di una precisione impeccabile. Ma talora dimenticava, Rovetta, di non parlare solo ai 
milanesi. Non spiegava, per esempio, la collocazione speciale e costante delle portinerie 
                                                             
35
 Arcari, Un meccanismo umano cit., p. 10.