PrEP: lo stigma paradossale. L'esperienza del Milano Check Point
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10 Alla base di questo effetto vi è la motivazione, cioè il “valore” di una serie di stimoli rispetto all’assenza di valore in un’altra. L’attribuzione di valore porta nei percipienti a una vera e propria modificazione di alcune caratteristiche attribuite agli oggetti o agli eventi sociali, con l’obiettivo di farli rientrare in categorie conoscitive preesistenti attraverso meccanismi di assimilazione e contrasto. Un fenomeno pervasivo nella realtà sociale, quest’ultimo: a causa dell’esagerazione delle differenze, il giudizio sociale non è mai un processo neutrale, poiché gli oggetti sociali possiedono sempre qualche forma di valore e di rilevanza. Negli anni Settanta Tajfel e i suoi collaboratori raffineranno ulteriormente il loro paradigma (Tajfel et al., 1971), attraverso nuovi esperimenti che utilizzano proprio il common destiny come condizione di controllo. I risultati dimostrano in modo inequivocabile non solo che la maggioranza dei soggetti opera scelte che favoriscono il proprio gruppo, ma anche che è disposta a sacrificare il profitto comune allo scopo di differenziare il proprio gruppo da un altro. L’interpretazione che fornisce Tajfel di questi risultati è fondata sul desiderio di appartenenza, anche quando il gruppo è “esageratamente minimo”, mentre proposte alternative tornano a porre l’accento sull’interdipendenza (Rubini, cit.). Sul finire del decennio, Tajfel e Turner proveranno a fornire una nuova spiegazione degli esperimenti sui gruppi minimi, appellandosi questa volta alla differenziazione positiva (positive distinctiveness) (Tajfel & Turner, 1979). L’idea che l’individuo punti a raggiungere una specificità, cioè una differenziazione positiva del proprio gruppo, diventa quindi la base della loro teoria dell’identità sociale (SIT, Social Identity Theory). Per Tajfel l’identità sociale è fondamentalmente la parte dell’immagine di sé che un individuo ricava dalla consapevolezza di appartenere a un determinato gruppo di persone e dal valore e la rilevanza emozionale che ne derivano. Di particolare interesse per il presente lavoro è l’ipotesi che, nei gruppi minoritari, le minacce all’identità che nascono dal confronto con i gruppi maggioritari si traducano in una percezione di maggiore omogeneità nell’ingroup. Ipotesi che nacque dalle osservazioni condotte da Simon & Brown (1987) sui comportamenti di gruppi di bambini ispanici neri e bianchi negli Stati Uniti e che ha ricevuto successive conferme empiriche. Nell’insieme, diversi studi suggeriscono che l’identità come funzione dell’appartenenza a un gruppo svolga un ruolo rilevante non solo nel generare la percezione di differenza rispetto all’outgroup, ma anche nella percezione della variabilità all’interno dell’ingroup (Rubini, cit.).
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Informazioni tesi
Autore: | Claudio Ferrara |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2019-20 |
Università: | Università Telematica "E-Campus" |
Facoltà: | Psicologia |
Corso: | Scienze e tecniche psicologiche |
Relatore: | Mario Pesce |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 82 |
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