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APPROFONDIMENTI

Un bilancio della Free Press dopo la crisi

01/06/2011

Un bilancio della Free Press dopo la crisi

“Secondo i calcoli di Philip Meyer”, afferma Vittorio Sabatin nel suo saggio dal titolo ormai proverbiale, “l’ultima sgualcita copia del New York Times sarà acquistata nel 2043”.
Le vendite dei quotidiani sono in calo ormai da un trentennio.
Da allora i rimedi delle società editoriali sono stati molti, ma poco efficaci.
Dai gadget agli abbonamenti degli alberghi, degli aeroporti, fino alle rassegne stampa in televisione e alle testate online (che avevano lo scopo di attirare lettori, ma hanno avuto l’effetto opposto), pur di gonfiare gli introiti, gli editori le hanno provate tutte. Spesso gli sforzi si sono risolti in un nulla di fatto.

Intorno al duemila, però, succedeva qualcosa d’inaspettato; un prodotto dell’editoria, il free paper, aveva raggiunto un incremento, in termini di diffusione, del 200%.
Cifra da capogiro, per un mercato che implicato in una lenta, ma costante discesa.
La qualità dei giornali non è ottima, certo, gli articoli sono troppo brevi, la commistione tra informazione giornalistica e pubblicità è lieve, la selezione stessa delle notizie segue criteri finalizzati ad attirare il pubblico piuttosto che a svolgere un regolare servizio d’informazione, ma il prodotto funziona.
Funziona così bene che, appena giunta in Italia la testata svedese Metro, nel 2000, attira subito l’attenzione sia dei grandi gruppi editoriali, come la Rcs, il gruppo Caltagirone e il gruppo Sole24Ore, sia dei piccoli imprenditori che vorrebbero fare fortuna con i nuovi media.

Potremmo dunque affermare che la free press sia stata, negli ultimi decenni, una delle novità più di successo nel panorama dei mezzi di comunicazione? Ebbene, lo è stata.
Ma lo scossone della crisi economica globale ha fatto vacillare terribilmente il mercato dell’editoria.
E se molti dei vecchi quotidiani a pagamento hanno saputo tutto sommato reggersi in piedi, la stampa gratuita, durante i due anni peggiori della crisi (il 2009 in particolare), ha subito un colpo durissimo.
Nel 2009, infatti, si distribuiscono 5 milioni di copie in meno rispetto allo scorso anno.
Un calo che Piet Bakker, considerato il maggior esperto del settore, ha definito “un bagno di sangue”.
Da quel fatidico anno è praticamente impossibile aprire nuove testate, sia per i nuovi editori che per i gruppi più solidi e pienamente affermati nel settore delle comunicazioni, mentre le maggiori società del settore vengono pian piano smontate delle loro edizioni (prima fra tutte la già citata Metro, multinazionale da 98 milioni di dollari di bilancio, per intenderci).

La free press, che sembrava rispondere alle richieste dei lettori moderni con prodotti leggeri, di facile comprensione e adatti alla velocità della società contemporanea, si è invece rivelata, dal punto di vista economico, un cattivo prodotto.
Non sono mancate le visioni apocalittiche, secondo le quali la stampa gratuita sarebbe stata solo un esperimento e la crisi, attivando un processo di selezione della razza, ha preferito salvare la qualità dei giornali tradizionali, lasciando che i tabloid gratuiti si estinguessero.
Non resta che chiederci: è davvero giunta l’ora della free press? Sembra di no: la scossa delle testate gratuite si è arrestata nel 2010, quando ne sono state chiuse appena tre, in tutto il mondo.
Pare dunque che la stampa gratuita non sia una meteora, destinata a scomparire (almeno, non adesso).

Ma allora, cosa è successo ai free papers?
Se osserviamo il fenomeno da un punto di vista più ampio, potremmo paragonarlo a un’onda che si è ingrossata per più di un decennio, e si è frantumata, ritirandosi progressivamente dal panorama mediatico. Ciò che è accaduto, infatti, non è una selezione della razza, ma un radicale ridimensionamento, che aiuterà sia gli studiosi che gli editori a conoscere meglio il prodotto.
Oggi sappiamo che il livello di competizione all’interno di un mercato è molto basso, dunque, affinché una testata di questo genere sopravviva, devono crearsi, in un determinato paese, situazioni e aree monopolistiche.
Perché in fondo, quando si tratta di free press, l’utente non sceglie il giornale, lo trova alle fermate dei mezzi pubblici, o nei bar, o negli alberghi, e la testata che “piazza” più copie vince.
Un processo di fidelizzazione, seppure sperato da direttori e capi-redazione, è impensabile, proprio perché, nella maggior parte dei casi, manca la volontà espressa, tramite una scelta consapevole, da parte dell’utente.
Inoltre, limitandosi a proporre i contenuti basilari delle notizie del giorno, la free press non regge il confronto con i mezzi di comunicazione tecnologici, più pratici e immediati.

Una teoria interessante l’ha espressa Benoit Raphael, affermando che “Nel momento in cui una notizia diventa pubblica, essa viene condivisa in pochi secondi da migliaia di utenti”, di conseguenza “la produzione dei contenuti di base non è più l’elemento distintivo del lavoro giornalistico, come quando l’ambiente dell’informazione giornalistica era un mondo chiuso”.
Questo significa che, anziché proporre le notizie basilari servendosi di un linguaggio asettico, la carta stampata è probabilmente un mezzo idoneo a diffondere altri tipi di contenuti, rispetto ai New media.
Non per forza seri e austeri; magari più approfonditi.

Oggi che il clima di tempesta sembra essersi acquietato, i direttori delle poche testate rimaste in vita optano per un prodotto più completo, più consapevole, sebbene pur sempre distante dal gigantismo dei quotidiani tradizionali.
In conclusione, pare che la stampa gratuita sia un elemento prezioso per gli studiosi delle comunicazioni di massa, in grado di chiarire moltissimi quesiti proprio perché la dinamicità, caratteristica sempre più marcata dei mezzi di comunicazione, è la peculiarità che maggiormente contrassegna il prodotto.
Qual è il destino della carta stampata? Perché, man mano che le generazioni si susseguono, i giovani leggono sempre meno? Come devono reagire, di fronte a questa rapida evoluzione socio-culturale, gli editori?
Non abbiamo certo i mezzi per rispondere con certezza a questi quesiti, ma ci sembra opportuno domandarci se questi piccoli tabloid che giustappongono, con continue sperimentazioni, i dispositivi mediatici più svariati, apparentandosi, a seconda dei casi, ora all’una, ora all’altra categoria di mezzi di comunicazione in un gioco, viziato o virtuoso che sia, perennemente caratterizzato dalla ricerca e mai dalla stabilità del prodotto, non contengano la soluzione al grattacapo che Philip Meyer ha gettato sulla scrivania di studiosi, giornalisti, ed editori di tutto il mondo: l’ultima copia del New York Times verrà venduta nel 2043?


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