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Nuovi Significati e Nuove Relazioni di Genere nella Famiglia e nel Lavoro

La teoria della differenza sessuale in Italia

La rivoluzione culturale che si verifica in Italia negli anni ’70 – ’80 ha radici profonde nella situazione storico-politica presente nel paese durante la Seconda Guerra Mondiale e il conseguente dopoguerra (Addis Saba, 1992). Durante la guerra le donne avevano sperimentato la chiusura di tutti i club femminili che non fossero fascisti, venendo forzate dal regime ad assumere il ruolo di madri coraggiose e produttrici di forti guerrieri votati alla causa del regime, e venendo in questo modo invase nel privato delle loro case e delle loro realtà cittadine, rendendo chiaro che cosa significasse “il privato è politico” (ibidem, 1992). Per questo motivo, divenne indispensabile il loro coinvolgimento pubblico nella resistenza, che iniziò come un rifiuto della guerra e del fascismo, per poi proseguire negli anni del dopoguerra con la partecipazione agli eventi pubblici come individui con sempre maggiore frequenza: nonostante assumessero spesso ruoli tradizionali, ormai il processo di cambiamento era avviato e le donne non potevano più non riflettere sul loro status nella società, abbracciando il cambiamento e trasmettendolo alla generazione successiva (ibidem, 1992).

Accogliendo l’eredità delle loro madri, le donne degli anni ’70 si uniscono in movimenti spontanei, spesso legati ai movimenti studenteschi, dove chiedono a gran voce i diritti sociali già rivendicati in passato, ma ancora non ottenuti in pieno: sono gli anni delle lotte sociali per l’aborto legalizzato e assistito, per il divorzio, per i servizi sociali garantiti e per le pari opportunità sul lavoro e nelle istituzioni (Restaino, 2002). L’enorme differenza dalle lotte dei primi femminismi sta nel rinnovamento degli obiettivi e delle iniziative politiche: ci si rende infatti conto di come il principio dell’uguaglianza, caratteristico del primo femminismo, non farebbe altro che omologare le donne agli uomini in campo giuridico e politico, cancellando la loro differenza e inglobandola nel maschile, cadendo così nuovamente nel tranello della logica binaria, luogo inadatto per accogliere il femminile che sta finalmente vedendo la luce (Iori, 2009). Va riconosciuto in ogni caso che la stagione del primo femminismo è stata importante per poter elaborare il valore della differenza, ed è importante non archiviarla, ma riconoscerla come memoria storica e come passaggio necessario nel cammino del femminile (ibidem, 2009). Questo salto di qualità compiuto dalle donne grazie ai gruppi di autocoscienza e alla conseguente diffusione delle idee porta, nel giro di un decennio, alla nascita di riviste, librerie, case editrici e centri di documentazione sulla storia delle donne in molte città come Milano, Verona e Roma (Addis Saba, 1992). La pratica dell’autocoscienza è caratterizzata da narrazioni in cui, partendo dall’individualità peculiare di ciascuna donna, ovvero dal proprio “sé”, emerge il materiale inconscio del proprio vissuto, grazie ai racconti delle proprie esperienze e dell’apertura verso le altre (Cavarero, 2002). Il linguaggio usato in questa pratica del sé rompe la limitante “gabbia del linguaggio” (Cavarero, 2002, p. 98) e si distacca dal modus operandi distaccato e logico della filosofia tradizionale, rivelandosi invece un linguaggio contestuale che racchiude la singolarità di ognuna e crea un ordine simbolico femminile generato da desideri, pratiche e parole di donne, che lega il sé di ciascuna alla relazione secondo dinamiche di affidamento e disparità (ibidem, 2002).

Nei primi anni del movimento è importante il contributo teorico di Carla Lonzi (19311982), legata al gruppo romano di Rivolta Femminile, in particolare con gli scritti “Sputiamo su Hegel” (1970) e “La donna clitoridea e la donna vaginale” (1971), che con gli anni si sono rivelati dei veri e propri scritti “seminali” rispetto alle discussioni che contraddistingueranno il dibattito femminista nella metà degli anni ottanta (Restaino, 2002). Pur non rappresentando un punto di riferimento essenziale nella discussione femminista italiana, le riflessioni di Carla Lonzi contengono già le basi per il pensiero della differenza sessuale, in quanto l’obiettivo proposto dall’autrice è quello di allontanare la donna dallo schema reale e simbolico dato dal patriarcato, rinascendo come soggetto donna nella sua differenza (Gelli, 2009). Nella sua critica a Hegel, Marx e Freud, la Lonzi afferma come l’uguaglianza formale nasconda l’oppressione reale delle donne, in quanto rappresenta una sopraffazione legalizzata (Lonzi, 1974). Nel testo “La donna clitoridea e la donna vaginale” (1971) l’autrice riprende il mito dell’orgasmo vaginale, già affrontato da Anne Koedt (1970), affermando che è stato l’uomo, per motivi di dominio, a “imporre” il modello del piacere vaginale rendendo la donna succube e sottomessa agli obiettivi procreativi e di piacere maschile (Restaino, 2002). La donna è soffocata nelle sue possibilità di provare il piacere clitorideo, considerato da Freud e dal mondo maschile come deviante, ed è obbligata a subire il rapporto eterosessuale vaginale imposto dall’uomo, ovvero il piacere ufficiale della cultura sessuale patriarcale, ignorando il fatto che il coito contiene sempre la violenza, in quanto simbolo della volontà di sopraffazione dell’uomo sulla donna (Lonzi, 1974). Le idee di Carla Lonzi vanno però oltre il pensiero della Koedt (1970), teorizzando che la “donna clitoridea” e la “donna vaginale” siano due vere e proprie condizioni in cui possono trovarsi le donne: la maggior parte di esse sono donne vaginali, che accettano la sessualità imposta dall’universo maschile in modo passivo, ed è da esse che deve partire il cambiamento, liberandosi dall’oppressione patriarcale e prendendo coscienza della propria sessualità, rinegoziando il rapporto eterosessuale e diventando così donne clitoridee, monopolio che finora è stato riservato solo alle donne lesbiche (ibidem, 1974). È in questo frangente che la condizione di donna clitoridea, per la Lonzi, non ha solo una connotazione di tipo sessuale, ma anche e soprattutto di tipo politico ed esistenziale, in quanto la donna, svincolando l’atto sessuale dalla riproduzione, compie un processo di cambiamento della sua persona come soggetto attivo, slegandosi da qualsiasi condizione di schiavitù mentale imposta dal patriarcato (Fontaine, 2013). Nonostante sia stata fra le prime a toccare l’argomento della differenza nei suoi scritti, che continueranno ad essere oggetto di dibattito anche dopo la sua morte, la Lonzi non sarà un punto di riferimento essenziale per il femminismo italiano di quegli anni, che vedrà come maggiori protagoniste le autrici di Milano e Verona (Restaino, 2002).
Nel gruppo delle femministe di Milano, il cui pensiero cammina di pari passo quasi con quello di Luce Irigaray e Julia Kristeva, si fa strada il tema centrale della differenza, il cui scopo è l’esaltazione della donna e delle sue potenzialità, finora celate ma non scomparse (Gelli, 2009). Questo gruppo di autrici, attive in vari movimenti femministi milanesi fra cui il Gruppo Demistificazione Autoritarismo (Demau), il Collettivo di via Cherubini, il gruppo della “pratica dell’inconscio” e il gruppo di Via Col di Lana, riesce ad aprire nel 1975 la Libreria delle Donne di Milano, che si presenza sia come uno spazio pubblico caratterizzato dal fine di vendita, sia come uno spazio politico in quanto libreria “di Donne” (Bono & Kemp, 1991). Fra le pubblicazioni principali è giusto ricordare la rivista “Sottosopra” (1983) e il memoriale “Non credere di avere dei diritti” (1987), apparso sulla rivista “Memoria”: quest’ultima è un’importante raccolta, frutto di un lavoro collettivo, che documenta i primi vent’anni di questa fase del femminismo italiano, in cui si distingue la mano di Luisa Muraro (1940) (ibidem, 1991). L’idea portante di questo memoriale è l’abbandono delle aspirazioni ugualitarie delle donne in modo da fare spazio alla differenza femminile e ai suoi valori positivi, processo di cambiamento che può attuarsi tramite la pratica dell’affidamento proposta dalla Muraro (1991), in cui una donna debole si affida ad una donna forte per avere una guida che la sostiene nel suo percorso di affermazione della differenza sessuale (Restaino, 2002). Una relazione di affidamento funziona come strumento di cambiamento e di lotta, in quanto stando insieme, anche se in condizioni di disparità, le donne possono realizzare l’ordine simbolico della donna, alternativo all’ordine simbolico dell’uomo e centrato sulla madre anziché nel padre (Aa. Vv., 1987). Il nuovo ordine simbolico della donna proposto dalla Muraro si basa sul rapporto madre-figlia, non più conflittuale ma armonico, in cui la figura materna è finalmente liberata dagli aspetti fallici che le furono dati dalla cultura maschile e dalla psicoanalisi e può diventare generativa grazie ad un rapporto di sole donne, mettendo fine così anche alla sterilità simbolica da sempre attribuita al sesso femminile (ibidem, 1987). Il concetto di madre simbolica sostiene la relazione madre-figlia, in un’analisi in cui la madre rappresenta colei che dà la vita e la lingua, in quanto fonte sia della vita materiale sia della vita simbolica: viene infatti messa in discussione la visione tradizionale androcentrica secondo cui la madre sarebbe fonte della vita e il padre sarebbe il referente dell’ordine linguistico e simbolico, secondo la classica dicotomia che associa la donna al corpo e l’uomo al pensiero (Muraro, 1991). La madre simbolica è invece sia fonte di vita sia fonte dell’ordine simbolico, e dal rapporto impari con essa, a cui si deve riconoscere autorità, deriva la messa in discussione del modello orizzontale di relazione fra donne, che richiama la sorellanza, ovvero un’uguaglianza indistinta fra di esse, e il sostegno ad un modello consapevolmente verticale, chiamato affidamento, figlio della disparità del rapporto e del riconoscimento del debito verso l’autorità materna (Donadi, 2000). La figura della madre simbolica non si comporta come un modello di virtù femminile, né come un paradigma obbligatorio in cui identificarsi, ma si eleva come principio costitutivo di una relazione di scambio fra donne, che, come suddetto, prevede una disparità e un debito, in quanto trova la sua misura nella naturale verticalità della relazione madre-figlia (Muraro, 1991). Si tratta di una riconfigurazione della figura materna che esce dagli stereotipi dell’economia binaria, assumendo la relazione come una pratica materiale e discorsiva capace di destrutturare l’ordine simbolico patriarcale, performando la soggettività femminista (Cavarero, 2002). La teoria dell’affidamento provocherà dei dissensi in alcuni settori del femminismo italiano, che diffideranno di una pratica che riproduce, fra donne, un rapporto verticale di subordinazione, dopo che per anni queste pratiche sono state criticate nel sistema patriarcale, in particolare nel rapporto fra l’uomo e la donna (Restaino, 2002).

Anche a Verona le pensatrici femministe fondano una loro comunità, Diotima, dove sviluppano il tema della differenza sessuale, scrivendo il volume di saggi dal titolo “Diotima. Il pensiero della differenza sessuale” (1987), primo di una serie di volumi che nel decennio successivo hanno sviluppato le tematiche del 1987 (ibidem, 2002).
Nel primo saggio, dal titolo “La differenza sessuale: da scoprire e da produrre” (1987), si affronta l’argomento del sapere filosofico e scientifico che si presenta come universale, ma ha in realtà un’impostazione maschile: le filosofe si propongo no di analizzare la falsa universalità del sapere tradizionale, contrapponendo al sapere maschile, ritenuto universalmente giusto, un nuovo sapere sessuato femminile (Gelli, 2009). Le autrici fanno notare come delle tracce di sapere femminile si possano rintracciare solo nelle forme non razionali dello scibile, come le mitologie, le arti e le religioni, anche se in quest’ultime non vi è traccia di sapere femminile nei postulati teologici, da sempre patrimonio della ragione maschile: è questo l’ennesimo rimando al dualismo mente/corpo, che vede la mente (e la ragione) assegnata all’uomo, e il corpo (come contenitore vuoto) assegnato alla donna (ibidem, 2009). Partendo da queste tracce presenti ai margini del sapere tradizionale maschile, le donne possono iniziare a riscoprire e a rivalutare il sapere femminile (Restaino, 2002). In un altro saggio presente nei volumi, “Per una teoria della differenza sessuale” (Cavarero, 1987), Adriana Cavarero, che parteciperà al gruppo Diotima fino al 1990, attacca fortemente il linguaggio maschile, considerato falsamente neutro, rivelandone il carattere sessuato e che rinvia, nonostante l’apparenza di universalità, all’unico soggetto del discorso della tradizione patriarcale, ovvero un soggetto di sesso maschile che assume se stesso come universale (ibidem, 1987). Per questo motivo, l’autrice ritiene che, per affermare un linguaggio che abbia come soggetto sessuato la donna, il femminismo della differenza sessuale dovrà affrontare la difficoltà di partire da parole e pensieri che appartengono ad un linguaggio che nega la differenza sessuale, in quanto nelle categorie di pensiero del linguaggio tradizionale il soggetto donna non esiste se non come “altro” rispetto al soggetto uomo (ibidem, 1987). Le donne sono praticamente costrette a narrare di sé attraverso le parole dell’ “altro-uomo”, in quanto non avendo un linguaggio suo non può autorappresentarsi nel linguaggio, accogliendo inconsciamente le rappresentazioni di lei prodotte dall’universo maschile: “La lingua materna nella quale abbiamo imparato a parlare e a pensare è in effetti la lingua del padre. Non c’è una lingua materna perché non c’è una lingua della donna” (ibidem, 1987, p. 52). Adriana Cavarero propone, attraverso il pensiero della differenza sessuale, di costruire un’alternativa radicale al linguaggio sessuato al maschile, costruendo un linguaggio della differenza che si fondi sulla condizione di separatezza della donna come “altra” rispetto all’uomo, rifiutando l’assorbimento del soggetto femminile nella falsa universalità della ragione del linguaggio maschile, e opponendo alla logica monistica maschile una logica duale, dove si riconosca il duale originario come un in trascendibile presupposto, escludendo una logica di assimilazione dell’Altro, ovvero della donna (Restaino, 2002). Per smascherare la falsità del linguaggio maschile e liberarsi dalla “gabbia d’acciaio” (Cavarero, 1987) costruita attorno al potenziale simbolico femminile è necessario che le donne dichiarino la propria estraneità al linguaggio tradizionale, attuando una separazione consapevole fra il pensiero e colei che lo pensa, ovvero iniziando a pensare a sé, e cogliendo l’opportunità di riconoscere in sé la propria esperienza ed il proprio essere “soggetto”, riuscendo finalmente ad autorappresentarsi come Altra rispetto al maschile (Brambilla, 2016). È soprattutto nelle altre donne che si possono riconoscere le esperienze comuni della separatezza e ci si può aiutare a vicenda nella propria autorappresentazione, in quanto facendo fronte comune ci si può riconoscere come esseri simili, ognuno portatore di un proprio simbolico, senza ricadere nelle trappole dell’uguaglianza del primo femminismo che porterebbe a rinunciare alla propria individualità (ibidem, 2014).
Al gruppo di filosofe di Diotima hanno fatto parte anche altre intellettuali che hanno messo a disposizione molti contributi teorici in vari campi, come Chiara Zamboni (1997) con il suo testo sulle filosofe nella storia della filosofia, o Wanda Tommasi (2001), che ha analizzato il tema della presenza del concetto di donna nella storia della filosofia. Anche il gruppo “Ipazia”, formatosi nel 1987 e vicino alla Libreria delle donne di Milano, si è occupato di ricerche sulle scienze e sui linguaggi scientifici, pubblicando nel 1992 un importante volume dal titolo “Autorità scientifica, autorità femminile (1992).

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Informazioni tesi

  Autore: Martina Vanali
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2018-19
  Università: Università degli Studi di Cagliari
  Facoltà: Scienze della Formazione
  Corso: Psicologia
  Relatore: Silvia De Simone
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 184

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