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Azioni Post-Conflitto: Relazioni tra Civili e Militari e Caso Afghanistan

Impatto della pandemia di Covid-19 sul peacekeeping

Era il 23 marzo del 2020 quando Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, lanciò l’appello per il cessate il fuoco globale. Il motivo che vi è dietro tale richiesta è la pandemia di Covid-19.
La necessità di un cessate il fuoco globale trova giustificazione nel fatto che, così come per le guerre, anche per il Covid-19 sono i soggetti più vulnerabili a correre i maggiori rischi.
Nello specifico, destano particolari preoccupazioni i teatri di conflitti internazionali che si caratterizzano per la presenza di istituzioni statali deboli, tensioni comunitarie, mancanza di fiducia nei leader e rivalità tra stati. Sia nelle situazioni di conflitto che in quelle post-conflitto, la popolazione si rivela essere maggiormente vulnerabile allo scoppio di un’epidemia, questo perché gli anni di guerra, tra le altre cose, impattano negativamente anche sui sistemi sanitari nazionali, i quali, vengono sostanzialmente resi impossibilitati ad affrontare una qualsiasi epidemia. In Libia, ad esempio, il Covid-19 è giunto quando il sistema sanitario era già collassato a causa della fuoriuscita dei medici durante la guerra.
Aree di combattimento che destano particolare preoccupazione sono la provincia nord-orientale della Siria e lo Yemen, regioni del mondo già fortemente provate dalle recenti emergenze sanitarie registratesi rispettivamente nel 2013-2014 e dal 2016 in poi.
Nel caso specifico della Siria, si sottolinea che le maggiori apprensioni si hanno nella città di Idlib dove l’offensiva del regime ha, da un lato, preso di mira ospedali e strutture sanitarie, dall’altro, provocato lo sfollamento di 1 milione di persone negli ultimi 6 mesi. Nello Yemen, invece, a causa del sistema sanitario nazionale molto debole, si registrano già 24 milioni di persone che necessitano di assistenza umanitaria.

Condizioni di vita precarie e un limitato accesso alle cure mediche rendono la popolazione siriana e dello Yemen completamente esposta allo scoppio del Covid-19.
Ma oltre a ciò, l’epidemia attualmente in corso potrebbe altresì indebolire le operazioni multilaterali di peacekeeping e di supporto alla sicurezza.
Per correre ai ripari, agli inizi di marzo, il Segretario per il Peacekeeping dell’ONU ha chiesto a 9 Stati contributori di truppe, tra i quali compaiono Italia e Cina, di sospendere alcune o tutte le rotazioni di unità nelle operazioni dei caschi blu.
Al di là di tali richieste, le missioni di peacekeeping stanno adottando alcune misure di mitigazione, alcune di queste consistenti nel rafforzamento dei protocolli igienici per i lavaggio delle mani e nell’aumento dei servizi igienici, nell’adozione di procedure di controllo sistematico della temperatura all’entrata delle basi delle missioni, nel rafforzamento dei canali di comunicazione (radio, social, etc.) per condividere informazioni inerenti la salute con la popolazione, nell’adozione di misure di smart working per il personale civile e il personale di staff dei quartieri generali.
Alcuni osservatori invitano a non abbandonare gli sforzi comuni sul peacekeeping, e lo fanno ribadendo che se ogni Stato inizia ad occuparsi delle proprie ferite e a sviluppare percezioni differenti, allora si rischia di veder decadere la sicurezza generale.

L’Appello del Segretario Generale delle NU è stato da alcuni recepito e da altri, inizialmente, ignorato.
Lo ha recepito, ad esempio, l’Arabia Saudita che, l’8 aprile, ha annunciato che il regno e i suoi alleati avrebbero proclamato un cessate il fuoco unilaterale in Yemen a partire dalle ore 12 del 9 aprile; lo ha invece ignorato (inizialmente) la Libia, paese nel quale, contro ogni ragione, si sono addirittura intensificati gli attacchi del Generale Haftar su Tripoli, sull’aeroporto di Mitiga e sulle regioni al confine con la Tunisia. Questi attacchi hanno avuto come conseguenza l’offensiva “Tempesta di pace” del governo al-Sarray.
Gli attacchi contro Tripoli sono stati condannati dall’Alto Rappresentante per conto dell’Unione Europea, il quale, ha poi rinnovato l’appello per una tregua che permetta alla popolazione civile, e in particolar modo alle persone più vulnerabili, di proteggersi dall’epidemia.
Sebbene non intenzionati a cessare il fuoco, i due governi rivali stanno cercando comunque di limitare il contagio: Haftar ha imposto limitazioni alla circolazione di persone e chiuso porti, aeroporti e uffici pubblici e privati, Al Sarray ha disposto la chiusura delle moschee, delle scuole e delle università, istituendo poi una zona di quarantena nell’aeroporto di Mitiga.
In un Paese ormai devastato dal conflitto e della mancanza di istituzioni forti, ben si può comprendere come le misure dei due leader siano più propagandistiche che volte alla protezione della popolazione.
Il 3 aprile il Segretario Generale dell’ONU ha reso noto che la Libia, insieme al Camerun, la Repubblica Centrafricana, la Colombia, il Myanmar, le Filippine, il Sud Sudan, il Sudan, la Siria, l’Ucraina e lo Yemen avevano aderito all’appello per il cessate il fuoco.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Azioni Post-Conflitto: Relazioni tra Civili e Militari e Caso Afghanistan

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Informazioni tesi

  Autore: Eric Borda
  Tipo: Tesi di Master
Master in Operatore Esperto nella Gestione delle Crisi Umanitarie, Prevenzione dei Conflitti e Processi di Ricostruzione Post-Conflitto
Anno: 2020
Docente/Relatore: Daniele Paragano
Istituito da: Università degli Studi Niccolò Cusano - Telematica Roma
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 52

Questa tesi è disponibile nelle seguenti traduzioni:

FAQ

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Parole chiave

ricostruzione
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afghanistan
peacekeeping
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eric borda

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