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APPROFONDIMENTI

Fatti e norme: il concetto di “verità” in morale

01/08/2012

Fatti e norme: il concetto di “verità” in morale

Del concetto di “verità” si sono occupate teorie differenti e, assai spesso, in conflitto tra loro.
Tra le più note ricordo la teoria corrispondentista, la teoria coerentista, la teoria utilitarista.

La prima affonda le sue radici nella celebre asserzione aristotelica: “Vero è dire che l’essere è e il non essere non è. Falso è dire che il non essere è e che l’essere non è”.
A partire da qui prese le mosse il primo Wittgenstein il quale difinì la verità in termini di corrispondenza tra linguaggio e mondo: un’asserzione è vera se descrive uno stato dei fatti che ha luogo nel mondo; altrimenti è falsa.
Suddetta teoria, a mio avviso perfettamente funzionante se limitata al mondo oggettivo dei fatti, non fornisce, tuttavia, alcuna risposta sulla verità o falsità di situazioni che trascendono il mondo dei fatti oggettivi, non ci dice nulla in merito al mondo sociale delle norme in cui pure siamo quotidianamente inseriti.

La teoria coerentista, invece, afferma essere vero ciò che è “coerente”. Il concetto di coerenza, purtroppo, è assai vago in quanto se si pretendesse che un’asserzione o un fatto fossero coerenti con ogni altra asserzione o fatto esistenti allora si pretenderebbe decisamente troppo e non vi sarebbe asserzione o fatto alcuno che si potrebbero dire Veri; tuttavia se bastasse che un’asserzione fosse coerente con qualche altra asserzione o un fatto fosse coerente con qualche altro fatto allora tale requisito sarebbe del tutto insufficiente a stabilire la verità e non sarebbe, inoltre, possibile distinguere un racconto di cronaca da una fiaba in quanto anche in una fiaba le asserzioni e i fatti potrebbero risultare coerenti tra loro.

La teoria utilitarista sostiene essere vero ciò che ci è utile.
Il problema fondamentale, a mio avviso, è : utile a chi? L’utilità non è certo la medesima per tutti i soggetti; dovrebbero quindi esistere tante verità quante sono le utilità?
Un secondo problema nasce dal fatto che ciò che è utile oggi potrebbe non esserlo più domani; ma allora con il mutare di ciò che è utile dovrà mutare anche ciò che è vero?
Questo criterio mi appare assai contro intuitivo.
Linguisticamente ogni giorno abbiamo a che fare, consapevolmente o ingenuamente, con il concetto di “verità”. Mi spiego meglio: all’interno del linguaggio e della comunicazione sollevare una pretesa di validità significa richiedere il consenso intersoggettivo per l’azione linguistica formulata; la validità di un’azione linguistica è, per così dire, il suo “merito” al riconoscimento intersoggettivo.

Le azioni comunicative si suddividono in:
- Constatative
- Regolative
- Espressive

Ad ognuna di queste categorie fa da sfondo un determinato “mondo”:
- Mondo oggettivo dei fatti nel caso di azioni constatative.
- Mondo sociale delle norme nel caso di azioni regolative.
- Mondo soggettivo delle esperienze nel caso di azioni espressive.

In base alle diverse azioni linguistiche di cui si serve il parlante, di volta in volta, mette in risalto una specifica pretesa di validità:
- Con un’azione constatativa il parlante solleva una pretesa di Verità, ovvero pretende di dire qualcosa di vero riguardo al mondo oggettivo dei fatti.
- Con un’azione regolativa il parlante solleva una pretesa di Giustezza, ovvero pretende che la sua modalità interattiva sia ritenuta corretta sulla base delle norme socialmente valide.
- Con un’azione espressiva il parlante avanza una pretesa di Veridicità, ovvero pretende che gli altri credano alla veridicità con la quale rivela qualcosa del suo mondo interiore cui egli ha accesso privilegiato.

Un noto filosofo contemporaneo ha cercato di mettere in relazione i fatti del mondo oggettivo e le norme del mondo intersoggettivo con lo scopo di dimostrare come anche nell’universo normativo abbia senso e sia fondamentale non rinunciare al concetto di “verità”.
Habermas cerca una soluzione che gli consenta di rimanere all’interno del linguaggio e, al contempo, di non ridurre il concetto di verità a quello di Giustificazione.
Egli parte dall’assunto che la verità non può essere ridotta ad accettabilità, ma, tuttavia, tra le due esiste pur sempre una forte connessione: “anche se la verità non è un concetto di successo, noi presupponiamo che una giustificazione di “p”, riuscita secondo i nostri criteri, deponga in favore della verità di “p”.”

Il passo che egli compie per colmare il divario sussistente tra i due concetti consiste nell’introdurre “condizioni ideali di accettabilità” le quali hanno il compito di decentrare la prospettiva dei partecipanti al discorso dal contesto concreto in cui operano a tutti i possibili contesti di giustificazione.
Un’asserzione vera si distingue da una giustificata o accettata razionalmente in virtù della sua accettabilità in tutti i contesti possibili; detto altrimenti un’asserzione per conquistarsi il titolo di “Vera” deve poter essere accettata a prescindere dal contesto specifico in cui viene messa a tema, di per sé, deve saper resistere ad ogni possibile tentativo d’invalidazione.
Questa concezione di “Verità” si rifà ad un tipo di conoscenza antifondazionalista e olistica: gli attori non escono mai dalla dimensione linguistica, non si confrontano mai con la realtà nuda e spoglia.
In questo senso la soluzione ottenuta non è certo esaustiva ma è, tuttavia, funzionale a restituire quel tanto di certezza necessaria a muoversi nella prassi quotidiana.
Una volta riscattata discorsivamente la pretesa di verità sollevata, seppur non raffrontata al mondo oggettivo al di fuori del medium linguistico, può tornare ad essere utilizzata aproblematicamente nell’agire comunicativo; agli attori sociali non serve di più per muoversi ingenuamente e con una buona dose di certezza.
Tuttavia, proprio la consapevolezza del carattere non assoluto ma fallibilistico del concetto di verità così ottenuto, ostacolerà un atteggiamento dogmatico nei confronti del mondo e del sapere acquisito e favorirà la disposizione a mettersi in discussione.

A prima vista gli enunciati assertivi che compaiono in azioni linguistiche constatative sembrano comportarsi verso i fatti in modo analogo a quello in cui gli enunciati normativi che vengono usati in azioni linguistiche regolative si comportano nei confronti delle relazioni interpersonali.
Tuttavia una norma è, al contempo, più autonoma e meno autonoma di un fatto.
È più autonoma perché il suo valore e la sua validità non sono vincolati alla forma dell’atto linguistico. La spiegazione di questo è data dal fatto che le pretese di verità hanno la loro sede unicamente nelle azioni linguistiche in quanto si riferiscono ad un mondo oggettivo che di per sé non ha alcun valore e che, pertanto, di per sé non solleva alcuna pretesa.
Le pretese di giustezza si trovano, invece, da subito inserite in un mondo sociale che avanza da se stesso delle pretese di validità; pertanto esse hanno la loro sede principalmente nelle norme e solo secondariamente nelle azioni linguistiche.
D’altro canto, in un altro senso, le norme sono meno autonome dei fatti.
Infatti le prime necessitano di attori che le pongano in atto, mentre i secondi esistono o non esistono a prescindere da qualsivoglia presenza umana.
I fatti possono esistere anche senza nessuno che li constati; le norme perdono il loro senso senza qualcuno che le attua.

Biografia dell’autrice

Samanta Airoldi nasce a Genova nel 1984. Nel 2008 consegue la laurea specialistica in Filosofia presso l’Università degli studi di Genova con una tesi dal titolo “Morale e agire comunicativo in J. Habermas” riportando la votazione di 110 con lode.
Nel marzo 2012, presso la medesima Università, consegue il Dottorato di ricerca, sempre in Filosofia, presentando la tesi “Universalismo e pluralismo in dialogo”.
Attualmente vive a Milano e continua a coltivare i suoi interessi nel campo delle scienze umane con particolare attenzione al rapporto tra i differenti gruppi culturali che convivono nella stessa società nonché alle dinamiche che legano gli individui alle comunità di appartenenza anche in riferimento allo sviluppo psicologico e morale dei singoli.


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