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Le Georgiche di Virgilio


Le “Georgiche” sono un poema didascalico scritto sul modello delle Opere e Giorni  di Esiodo e in cui si realizza il programma delle Bucoliche. Virgilio impiegò sette anni per la sua composizione, e lo dedicò al suo patrono Mecenate. Virgilio si ispira ad Esiodo in quanto non è sua intenzione comporre un manuale di avviamento all’agricoltura, bensì vuole rappresentare come ideale la vita del contadino italico: essa è frugale e austera, certo esposta a insuccessi e sofferenze, ma se vissuta in armonia con la natura e con l’ordine divino delle cose è moralmente soddisfacente e procura in compenso pace e soddisfazione; il lavoro agreste è il fondamento della grandezza d’Italia.
Altro autore a cui Virgilio si ispira, o meglio, con cui si confronta, è Lucrezio. Tra i due poeti c’è un confronto interno. Lucrezio voleva dare una soluzione ai travagli della morte e del tempo analizzandoli sotto l’ottica filosofica, mentre Virgilio insegna a vivere in pace ed in serenità. Le due soluzioni pur non essendo antitetiche sono comunque differenti: Lucrezio aveva un rapporto molto conflittuale, quasi di rottura, con la società romana, mentre Virgilio è più conciliante.
Si è lungo discusso su un eventuale corrispondenza tra l’opera di Virgilio e un ipotetico programma di risanamento del mondo agricolo. La tesi fa acqua da tutte le parti perché non c’è minima traccia di questo programma nei documenti antichi. È più probabile che Virgilio si ispiri alla propaganda ideologica augustea (esaltazione della tradizioni dell’Italia contadina e guerriera in maggior parte). In effetti la coltivazione dei campi può essere una metafora: i toni usati fanno capire che l’opera era destinata all’élite romana e gli argomenti agricoli rappresentano gli antichi valori della Roma delle origini, valori che la propaganda augustea teneva in grande considerazione. Ma non si può pensare alle Georgiche come un mero apporto alla propaganda augustea. Virgilio sentiva molto il mito nazionale e il suo contributo personale fu notevole.
Le idee alla base.
Gli ideali delle georgiche erano l’esaltazione del contadino (il colonus) e l’esaltazione dell’Italia in contrasto con le province, come propaganda augustea voleva.  I temi dei quattro libri dell’opera sono nell’ordine: il lavoro dei campi, l’arboricoltura, l’allevamento del bestiame, l’apicoltura. Lo schema tematico mostra come man mano che ci si inoltra nelle tematiche si va da un lavoro dove la fatica umana diventa sempre meno accentuata e la natura (vista comunque in funzione dell’uomo) è sempre più protagonista; dal lavoro incessante dell’aratore nel I libro all’operosità incontrollabile delle api nel libro IV, che altro non è che la rappresentazione più fedele della natura umana (= umanizzazione della natura) Altre corrispondenze coincidono con le digressioni dei singoli libri e con i proemi. Le digressioni sono sempre alla fine dei libri e hanno sempre un’estensione regolare: le guerre civili, la lode della vita agreste, la peste degli animali del Norico, la storia di Aristeo e delle sue api.
I proemi.
I proemi invece hanno chiara funzione di cerniera i proemi: due sono lunghi e eccessivi rispetto al tema georgico ( I e III) e due brevi e strettamente introduttivi (II e IV). Ai libri I e III con proemi molto lunghi corrispondono digressioni finali tristissime: la guerra civile e la pestilenza. Ai libri II e IV con proemi brevi corrispondono vicende più liete (l’elogio della vita campestre e la vicenda delle api, che comunque non è scissa dalla vicenda tragica di Orfeo).  
Il mito di Aristeo e Orfeo chiude l’opera di Virgilio. Per parlare di ciò bisogna partire da un problema: il finale delle Georgiche non era costituito dal racconto di questo mito ma dall’elogio del poeta Cornelio Gallo, uno dei padri fondatori del genere elegiaco romano. Il poeta Gallo, caduto in disgrazia per un motivo tuttora oscuro, entrò in contrasto con l’amico Ottaviano (ora chiamato Augusto), il quale rinnegò la sua amicizia; tempo dopo il poeta si suicidò. Si pensa che non sarebbe stato opportuno per Virgilio concludere l’opera con il suo elogio, che recava con se pericolosi strascichi politici,  e per questo fu costretto a cambiare il finale con la narrazione del mito di Aristeo e Orfeo. È difficile, però, considerare un ipotesi così azzardata: la descrizione del mito, da come è scritto, non sembra un inserimento improvviso. Si pensa allora che l’elogio seguisse direttamente alla descrizione mitologica e che Virgilio si sia limitato a eliminare l’elogio lasciando il mito al suo posto.

Tratto da LINGUA E LETTERATURA LATINA di Gherardo Fabretti
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