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Jonathan Slativin e il senso di agency del paziente


Si sofferma su come l’analista può, con la sua influenza personale, risvegliare il senso di agency del paziente che perduri oltre il termine dell’analisi. Questione questa spinosa che fin dai tempi di Freud era dibattuta al fine di evitare “contaminazioni” dell’analista sul paziente.
 
Prima ancora che Winnicott parlasse del “vero sè”, Freud aveva parlato della formazione di un qualcosa di vero, proprio del paziente, che viene a formarsi durante l’adolescenza, con il superamento delle fantasie incestuose. Questa formazione si attua con la separazione dei genitori: un passaggio importante e che non sempre avviene correttamente.
Freud anticipa quindi quel concetto di agency che oggi circola liberamente nell’ambiente psicoanalitico, parlando dello sviluppo di una capacità personale di azione.
In questo senso è ancora più comprensibile l’idea di Freud per cui la neutralità dello psicoanalista è in primo piano per evitare quindi che impedisca la nascita del “vero sè” del paziente (perchè se non si fosse “neutri” si rischierebbe di portare la propria autorità in risposta all’autorità dei genitori).
 
Macalpine, facendo un’analogia tra l’ipnosi e l’analisi, sottolinea come in entrambi i casi si regredisca a situazioni infantili create nella relazione, ma nella terapia psicoanalitica, l’analista deve resistere alla tentrazione di regredire lui stesso e non deve diventare il co-protagonista del transfert.
Loewald, invece, dice proprio il contrario, sostenendo che l’analista deve essere “co-protagonista sulla scena analitica” anche se poi quando parla della soggettività dell’analista rimane poco chiaro.
 
Con lo svilupparsi delle prospettive Kleiniane risultò visibile un modo in cui non solo il paziente avesse un impatto sull’analista, ma anche dell’importanza che questo impatto poteva avere nel setting terapeutico e nell’analisi stessa (identificazioni proiettive). Ovviemente, parlando della Klein, la soggettività dell’analista non è mai “in gioco” nella relazione, perchè se un analista è sufficientemente analizzato è anche consapevole del proprio controtransfert e quindi rimane neutro rispetto alle proprie idee ed “illuminaizoni emotive” controtransferali (nota parzialmente personale).
 
Il passaggio successivo verso la soggettività lo si trova in Winnicott quando parla di “holding environment” e di “two-person psychology” anche se la nozione di madre sufficientemente buona o di analista sufficientemente buono sia di per sè “non-distorcente” e epurabile dalla personalità dell’analista. Anche nel parlare dell’odio dell’analista, egli lo spiega come una risposta “normale” (sufficientemente buona) dell’analista e quindi non “reale/personale”.
 
Anche la psicologia del sè parla dell’impatto dell’analista nella relazione e di come talvolta anche un fallimento relazionale possa essere utile ai fini dell’analisi, ma solo nel senso in cui si poteva capire perchè era avvenuto questo fallimento empatico e di come si era giunti a mitigarlo. In sostanza l’analista è in relazione e attua tutte le regole classiche analitiche di neutralità. Se non funzionano ci si chiede perchè non hanno funzionato sulla base delle teorie e del paziente, non mettendo in mezzo anche l’analista (nota personale).
 
Borgogno invece riesce ad utilizzare la propria soggettività “in toto”, come parte necessaria dell’analisi, similmente a come suggeriscie la scuola americana relazionale. Soggettività che è presente sempre e comunque nell’analisi, a livello conscio od inconscio, in ogni minima variazione e nel suo modo proprio di essere. Il lavoro analitico è qunidi gravato (ma anche sostenuto) dalla presenza dei nostri processi inconsci e dalla nostra partecipazione personale e soggettiva.
 
Applichiamo ora ad M queste idee: M si sentiva “non-esistente, orfana di reverie materna”. Sentimenti di vuoti interiore ben visibili nel primo sogno portato in analisi.
La paziente aveva un forte impatto su Borgogno e questo traspare chiaramente dalle pagine della sua esposizione. E proprio il fatto che M abbia capito cosa provava l’analista le ha poi permesso di uscire dalla sua condizione (“se uno ha effetto per gli altri allora esiste” nota personale). Risulta infatti fondamentale nel testo il fatto che l’analista sappia accogliere l’esperienza del paziente diventandone testimone, anche se, dice Slavin, forse non è propriamente sviluppato nel testo.
Interessante è, ancora, il concetto di personal agency, ovvero di quanto sia importante vivere il paziente su di se e soprattutto rendere testimone di questo il paziente.
 
Per Slavin il concetto di Agency significa l’impatto che una persona sa (e sa di avere) sugli altri nelle sue relazioni. Esso si sviluppa nelle prima esperienza con il caregiver, non solo nell’essere riconosciuto, ma dall’esperienza di ripetizione che rende chiaro al bambino che questa attenzione, impatto, deve essere “guadagnato” e che lui può guadagnarlo (riferimento alla citazione di M di prima). Se manca riconoscimento, anche l’agency non si sviluppa correttamente, similmente ad un “falso sè” winnicottiano (bambino esiste per i genitori solo se si conforma a loro).
Il lavoro di Borgogno è stato quello di riattivare questo senso di agency mal sviluppato permettendo ad M di uscire da quella trama di “mandati genitoriali” (di cui lei stessa parla – nota personale).
 
Questo passaggio conferma ancora una volta l’importanza di saper mettere sè stessi all’interno della relazione analitica per poter permettere al paziente di ritrovare, nella relazione ora autentica, quel senso di agency “bloccato”. Così come i bambini formano il proprio senso di agency dall’incontro unico con i genitori per quello che loro sono. Qualsiasi tentativo di non mettere in gioco sè stessi nella relazione analitica porterà ad un fallimento sicuro, dice Slavin. Un’influenza personale che non comincia quando il paziente lo richiede, ma quando la spontaneità dell’analista lo decide. Spontaneità che, sottolinea Borgogno, è costellata da ottimismo, speranza, ecc… che sono stati fondamentali per trasmettere ad M quella prima fiducia nella terapia.
 

Dina Vallino

 
Borgogno esprime con chiarezza quello che sono lgi Spoil Children nell’accezione di bambini non capricciosi e viziati, ma deprivati e spogliati, come dopo un’azione di guerra.
Vi è quindi un’identificazione mortifera con un oggetto deprivante che le impedisce di apprendere dai genitori il modo di cavarsela nella vita. Questa identificazione porta le persone afflitta all’idea di non esistenza.
La sofferenza di M risulta caratterizzata da morte psichica, identificazione con oggetto deprivante e il non esistere.
Questo problema non nasce da genitori “psicopatici”, ma semplicemente da genitori non in grado di apprezzare la vita e di trasmettere vitalità al figlio. Parti del suo sè sono dunque impossibilitate ad esprimersi e successivamente ad evolversi.
Cosa succede poi? Succede che questo sè si dispiega nel corso dell’analisi proprio grazie ad un processo di soggettivazione avvenuto con l’analisi.
 
Continua poi con un’analisi della storia della paziente soprattuto con i passin riguardanti la morte (psichica e non) di cui è M stessa a parlare, fino ad arrivre al primo sogno, dove Vallino propone una lettura di “destino di morte psichica” e anche un’alternativa lettura di voler espellere l’intruso (genitoriale) fuori dalle viscere. Destino famigliare che torna nelle sue fantasie oniriche e anche in quelle di Borgogno quando dice di dover “spezzare le catene del sui tragico destino famigliare”.
 
C’è poi una fase dove spiega ulteriormente la parte “intermedia” dell’analisi dove l’esistere di uno è la morte dell’altro e dove continuano i silenzi (non aggiunge molto all’analisi già presentata da Borgogno).
Borgogno in quella fase sperimenta su se stesso una completa inutilità dei suoi sforzi tesi a descrivere le vicende interne della paziente e a superare iol suo silenzio.
Silenzio spezzato dall’ammissione della limitiatezza dell’analisi e dell’analista (detto in maniera anche sincera ["roboante e veemente" dice Borgogno nel suo pezzo] e spontanea) che permette di riportare M sul piano di realtà (la risposta è la solita “se uno esiste per gli altri è reale”).
Da qui appare evidente come M stessa capisce come gestire i sentimenti e come li ha fino a quel momento gestiti, grazie alla lunga analisi fatta con un terapeuta in grado di darle quel rapporto che non era stato dato dai genitori (vedasi ultimi sogni).
 
Ritorna poi sualla fase dell’impasse provata da borgogno durante l’analisi relativo ad uno scritto suo (della Vallino) dove viene descritta l’angoscia e l’impotenza provata con dei pazienti particolarmente gravi: in questi casi, dice, l’analista deve vivere lui stesso le sofferenze portate dai pazienti.
Ella si trovava così in un controtransfert di non-esistenza a cause dell’identificazione proiettiva dei suoi pazienti.
La principale similitudine tra il suo scritto e quello di Borgogno è da trovarsi nel persorso fondamentale per pazienti come quelli, ovvero portare la deprivazione ad uno stato nuovo, dove si deve prima sopravvivere, poi esistere e infine vivere.
 
Le differenze invece sono riguardanti l’indagine della deprivazione in pazienti schizoidi e queste sono complementari tra i due scritti.
Rimane il contributo di realtà dato dall’analista al paziente per distoglierlo dai “mandati genitoriali” e permettergli quindi un poù completo sviluppo del sè vero (nota parzialmente personale), ma Borgogno va oltre e parla dell’uscita della paziente dalla fase di identificazione estrattiva patologica, quella spoliazione-estrazione di aspetti necessari al crescere del bambino.
 
Borgogno risponde
 
Sia Vallino che Slavin sottolineano come ci sia la soggettività al centro dello scritto originale (di paziente e analista) e di come sia importante per ogni paziente scoprire di avere un impatto sul mondo esterno (agency).
 
Nel parlare di come si forma l’agency, oltre a quanto detto da Slavin, egli aggiunge che è la qualità del sentimento che accompagna il renderci disponibile al bambino che è di fondamentale importanza, non il significato verbale dell’azione, questo perchè il significato è dato dall’emozione veicolata nell’atto. Oltre a questo, aggiunge, è fondamentale che ci ci accudisce renda chiaro a noi che lo fa con piacere e non in maniera svogliata o “per dovere”.
 
M infatti non ha avuto questo e pensa di essere inesistente, di non contare. Questo sentimento piano piano si è allargato invadendo tutta la sua vita, portandola alla paralisi e a quel gorgo nero con cui si presenta in seduta. M è inoltre minacciosa nella sua fantasia, per il mondo dei genitori.
M ha quindi finito per credere che i suoi la volessero morta, inesistente. Così come ha cominciato a credere di essere incapace di veicolare la necessità di richieste e di attenzioni.
 
E’ stato necessario quindi andare prima a trovare M dove si era nascosta e poi farle capire che il suo impatto era forte sull’analista e che quindi er ain grado di veicolare emozioni e richiedere aiuto, anche solo con i silenzi ed i gemiti. Tutto questo senza il minimo feedback di M che rendeva tutto più difficile.
 
Per quanto riguarda la soggettività, una prassi analitica “buona” per pazienti come M dovrebbe essere quella di portare un minimo di influenza costruttiva ed evolutiva che non mortifichi la sua flebile voce sostituendoci la propria, per rinvigorire l’esistenza e il suo senso di agency.
Questo con M non è satto possibile perchè sostanzialmente M non parlava e solo l’analista poteva quindi dare voce a quello che credeva stesse accadendo e ovviamente depurare sempre tutto dalla parte soggettiva non sarebbe stato possibile.
Borgogno, ancora inesperto all’epoca dell’analisi, ammette che non aveva immediatamente capito che il silenzio di M era un vero contributo all’analisi perchè permetteva all’analista di rivivere in sè stesso quello che M provava e contemporaneamente era un invito nella sua infanzia deprivata (non per genitori patologici, ma solo incapaci di comunicare, lo ricordo). Era quindi necessario inventare un nuovo linguaggio che potesse essere condiviso.
La creazione di questo linguaggio non fu facile o lineare, ma irto di errori che andarono con il tempo corretti . Ma proprio la correzione in evoluzione di questi errori permette la crescita del senso di agency in quanto è la stessa M ad essere motivo della creazione e della correzione del nuovo percorso linguistico sperimentale.
Con pazienti come M fare degli errori è normale. E correggere questi errori in itinere fa nascere una nuova storia che è positiva per il paziente.
 
Cosa ha quindi permesso il nascere del senso di agency in M? Il continuare a comunicare con M e la voglia di Borgogno di crearsi sempre immagini di lei, la sua voglia di contenere e modulare i significati della paziente e del setting e il farsi “ingravidare” dall’atmosfera che caratterizzava le sedute .
 
Il comunicare è stato inmportante per le funzioni metacomunicative veicolate, ovvero “quello che fai per me è importante” (e altre, vedere fondo di pagina 131). Funzioni che la Heimann chiamerebbe di contatto e reciprocità, di conferma del desiderio di rapporto. Sostanzialmente qualcosa che dice al paziente che l’analista vuole veramente comunicare con lui.
Quindi partecipazione emotiva e coinvolgimento attivo che portarono al “rombo”, nel quale M si accorse una volta per tutte e in maniera per lei accettabile che era lei a dare adito ai pensieri di Borgogno, non solo le teorie analitiche studiate, e che quindi lei esisteva veramente per Borgogno.

Tratto da LA SIGNORINA CHE FACEVA HARA-KIRI di Ivan Ferrero
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