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Introduzione 
 
Questo lavoro nasce da un mio personale interesse che vede uniti il percorso di 
studi intrapreso a livello linguistico e la passione che nutro verso una disciplina 
sportiva, Macumba Dance Fitness-Re Move, che ad oggi insegno in varie palestre, 
parallelamente all’insegnamento della lingua inglese.  Nella tesi triennale ho 
analizzato l’aspetto culturale di Macumba Dance Fitness-Re Move, vedendo un anello 
di congiunzione nei Cultural Studies nati in Gran Bretagna, che hanno rappresentato 
una rivoluzione nello studio di culture, considerando non solo la cultura propriamente 
definita ‘accademica’, pertanto alta, letteraria, riservata ad una fetta elitaria della 
popolazione, bensì anche la poesia ed ogni espressione artistica, portando ad uno 
studio accademico ogni espressione di cultura popolare, allargando lo studio della 
letteratura a culture così dette di consumo come ad esempio la televisione e alle 
molteplici forme in cui la gente esprime la propria identità, tra le quali rientra lo sport. 
Questo lavoro, che ha come base quanto elaborato nella prima tesi di laurea, pone al 
centro della ricerca Macumba come disciplina sportiva legata alle culture locali, al 
folclore; in tale ambito, analizzerò il ruolo dell’istruttore sotto due aspetti: 1) come 
mediatore culturale e linguistico, ovvero una figura che media tra culture locali e 
lingue nazionali in cui si esprime e l’inglese che è la lingua sovranazionale del fitness; 
2) come insegnante in relazione alla capacità dello sport di produrre un linguaggio, un 
senso di appartenenza, una comunità come dimostrato anche da vari studi di disciplina 
e lingua integrate nell’apprendimento, in questo caso educazione fisica, e inglese CLIL 
(Content and Language Integrated Learning).
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CAPITOLO I 
1.1 L’approccio pedagogico all’educazione linguistica 
 
In questi anni l’uso dell’inglese in un mondo globalizzato che ci vede tutti 
connessi attraverso la tecnologia, ha reso sempre più importante lo studio di questa 
lingua, che non diviene una scelta, ma quasi un obbligo ai nostri giorni. Non si può 
ignorare il fatto che sia la seconda lingua più parlata al mondo, utilizzata per inviare 
ed immagazzinare elettronicamente informazioni su piattaforme virtuali, così come 
per scambiare idee e risolvere problemi (basti pensare a congressi internazionali, 
missioni umanitarie/militari, documenti dell’Unione europea).  
L’espansione dell’Impero Britannico durante il diciannovesimo secolo, la 
creazione di organismi internazionali negli anni ‘50, il boom dei mezzi di 
comunicazione degli anni ‘90, hanno favorito la crescita e l’influenza di tale lingua su 
scala globale. D’altra parte come ci ricorda lo stesso David Crystal, uno dei più noti 
linguisti a livello mondiale, nella storia ogni lingua è diventata lingua internazionale 
per il potere della gente che la parlava, ovvero prevalentemente il potere militare e 
politico. Vi è un collegamento tra il predominio di una lingua ed il potere culturale, 
economico e tecnologico al punto che senza uno di questi poteri di base una lingua non 
potrebbe essere uno strumento internazionale di comunicazione. Infatti “language has 
no independent existence, living in some sort of mystical space apart from the people 
who speak it. Language exists only in the brains and mouths and ears and hands and 
eyes of its users. When they succeed, on the international stage, their language 
succeeds. When they fail, their language fails” (Crystal, 2003: 7).  
Considerando che all’estero i bambini apprendono l’inglese sin dalla scuola per 
l’infanzia e vi sono paesi quali la Cina dove gli studenti sono obbligati a passare 
l’esame denominato ‘Gaokao’, studiando ogni giorno inglese per tre anni per 
prepararlo (Walker, 2009), ne consegue che tutti gli istituti, statali paritari o privati che 
siano, dovrebbero avere un unico motto ‘Master your future!’, ed investire nella 
formazione dei loro insegnanti, così come nella preparazione dei loro studenti per 
accrescere le loro possibilità di trovare un giorno un buon lavoro in una società sempre 
più competitiva.
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Nel libro ‘Fare educazione linguistica’, Balboni, uno dei massimi esperti 
italiani in glottodidattica, ci ricorda che l’inglese è oggi quello che il latino ed il greco 
sono stati anni fa, ovvero una lingua franca di ausilio nelle comunicazioni 
internazionali, sottolineando però che all’interno dell’odierna educazione linguistica, 
si dà priorità all’aspetto pragmatico piuttosto che a quello culturale, letterario o 
fonetico/fonologico sino al punto che “gran parte dell’insegnamento dell’inglese oggi 
nel mondo non è lingua straniera ma lingua franca” (Balboni, 2008a: 11). Poiché la 
glottodidattica secondo la tripartizione di Anthony del 1972 analizza approcci (teorie 
di riferimento), metodi (approcci che diventano modelli operativi) e tecniche 
(procedure didattiche) utili per l’insegnamento delle lingue, è bene precisare sin da 
subito una distinzione tra: 1) la lingua materna (L1), quella in cui il bambino pensa e 
che acquisisce nell’ambiente in cui cresce; 2) la lingua straniera (LS), la cui 
acquisizione avviene grazie alla guida di un docente che selezionerà il modello da 
seguire e che quindi, come nel caso dell’inglese studiato a scuola in Italia, non è 
presente  nell’ambiente in cui si cresce; 3) la lingua seconda (L2), che come nel caso 
di un italiano immigrato in Inghilterra o di un immigrato in Italia verrà acquisita o 
studiata perché presente nell’ambiente (Balboni, 2008a). Tuttavia si riscontra una 
discrasia dal momento che in un progetto CLIL si parla di acquisizione ed uso della 
L2, usando tale termine per descrivere in realtà la LS che appunto si apprende a scuola. 
Educare non vuol dire soltanto trasferire un sapere ai discenti, ma ampliare le 
loro capacità a livello quantitativo e qualitativo e permettere che loro sappiano una 
lingua e la sappiano usare, per cui “il linguaggio, per svilupparsi ed arricchirsi, 
necessita di contenuti diversi e di pratiche educative che pongono al centro la 
consapevolezza della e sulla lingua (essere, fare e riflettere sulla lingua/sulle lingue)” 
(Cavagnoli, 2011: 17). L’insegnamento linguistico è una sfida in fieri per la 
glottodidattica, per i molteplici bisogni di chi vuole imparare una lingua straniera, e di 
chi la vuole insegnare, o meglio “la scuola è a sua volta, una sfida nelle sfide del nostro 
tempo” (Cambi, 2017: 22). Forse andrebbe recuperata dal passato e rinnovata sotto 
alcuni aspetti la pedagogia che si è sviluppata nel corso degli anni in Italia. Se da un 
punto di vista storico in Italia possiamo considerare importante il “Regolamento 
Bargoni per il conferimento delle patenti d’abilitazione all’insegnamento delle lingue 
straniere (R.D. 3 giugno 1869, n. 5140)” (Cives, 1990: 429-431), punto chiave per lo
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sviluppo dell’insegnamento linguistico è stata la nascita della scuola media statale 
unica, gratuita e obbligatoria grazie alla Legge 31 dicembre 1962, n. 1859 (Cives, 
1990) e per cui la “glottodidattica diventa scienza dell’educazione linguistica” (Chini-
Bosisio, 2014: 23).  
Nella seconda metà del ‘900 c’è stata una netta trasformazione della pedagogia 
che ne ha ridefinito l’identità. Si è passati dalla pedagogia alle scienze dell’educazione, 
da un sapere unitario ad uno plurale. Le ragioni sono storico-sociali: la società è 
diventata sempre più aperta, dinamica e tecnologica. Il nuovo sapere pedagogico ha 
assunto una connotazione più sperimentale, empirica, orientata al problem solving. Si 
sono affermate varie discipline costitutive del sapere pedagogico quali la psicologia, 
la sociologia, la docimologia, le tecnologie educative, e la filosofia. Il pedagogista ha 
perso il ruolo di persona esperta sull’educazione e sulla risoluzione di ogni problema 
ad essa inerente, poiché la conoscenza pedagogica si è ampliata, creando nella sua 
pluralità un reticolo di competenze specifiche. Le scienze dell’educazione hanno 
affrontato la complessità dei fenomeni educativi, occupandosi di problemi specifici 
come l’apprendimento delle lingue, il radicamento e lo sviluppo di una coscienza civile 
all’interno di una società democratica e tenendo conto dell’aspetto psicologico, 
metodologico, didattico. Le scienze dell’educazione hanno colto pertanto la specificità 
e la varietà dei problemi per sottoporli a procedure di analisi e di intervento che hanno 
permesso soluzioni verificabili ispirate ad una logica della sperimentazione e del 
controllo scientifico (Cambi, 2005).  
Non è semplice individuare e definire le mansioni degli insegnanti, ma bisogna 
essere coscienti che l’insegnamento rappresenta un procedimento complicato, non 
lineare, che richiede un grande impegno quotidiano “soggetto alle influenze culturali, 
politiche e sociali che caratterizzano un determinato momento storico” (Chiappetta 
Cajola-Ciraci, 2013: 141). Osservando il contesto storico italiano, senza quindi 
tralasciare i fenomeni sociali collegati alle strutture economiche e di produzione della 
nazione, si è passati attraverso la riforma di Gentile del 1923 in epoca fascista in cui 
si riteneva che per gli insegnanti non fosse necessaria una preparazione professionale 
specifica; gli stessi erano profani di psicologia e tirocini didattici e avevano come 
obiettivo quello di insegnare a saper leggere, saper scrivere e saper fare i conti. 
(Alberti, 2015). Per la pedagogia gentiliana incentrata intorno all’identità spirituale del
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soggetto umano, i cui processi di formazione avevano luogo a scuola, viene ad essere 
unitario il rapporto tra maestro e scolaro attraverso la centralità dell’insegnante, della 
sua cultura e della sua autorità.  
Sempre nella prima metà del ‘900, a seguito dell’affermarsi di esperienze di 
avanguardia in Europa e negli Stati Uniti, tra cui il movimento internazionale 
dell’attivismo, l’attenzione si sposta sul puerocentrismo, ovvero sul ruolo essenziale e 
attivo del fanciullo in ogni processo educativo, cui grande rappresentante e maestra fu 
Maria Montessori, che cercò di applicare una pedagogia scientifica all’educazione 
infantile. Il maestro teorico per eccellenza di tale movimento fu il pedagogista John 
Dewey che considerava essenziale per la base di una società democratica, la pedagogia 
e l’educazione vedendo il ruolo politico da esse svolto, poiché la democrazia si poteva 
costituire solo mediante un’opera di educazione scolastica. (Cambi, 2005).  
Nell’anno 1944-1945 uno dei maggiori pedagogisti americani, Carleton 
Washburne, seguace di Dewey e direttore della Sottocommissione dell’Educazione 
facente capo alla Commissione Alleata, cercò di inserire nella scuola italiana i valori 
di democrazia, i principi del lavoro tramite attività pratiche in classe, basandosi su 
ideali di convivenza pacifica e tolleranza fra i popoli. Fu promotore dei “principi di 
ispirazione deweyana su cui si fondava il suo credo pedagogico: la centralità del 
bambino e dei suoi bisogni vitali (salute fisica, mentale ed emotiva); il principio 
dell’interesse ad apprendere come punto di partenza di ogni azione didattica; la 
formazione culturale intesa come processo di partecipazione alla vita sociale; le regole 
dell’autogoverno come pratica di autocontrollo e autodisciplina” (Alberti, 2015: 81). 
 In un periodo di grande trasformazione, e di Repubbliche partigiane di 
resistenza è importante non dimenticare la scelta dei programmi inerenti l’istruzione e 
la scuola, tra cui vi fu quello della Repubblica dell’Ossola, dove l’allora sacerdote Don 
Gaudenzio Cabalà, eletto Commissario per l’istruzione, portò innovazione 
considerando l’insegnamento delle lingue straniere non soltanto una materia scolastica 
bensì “affermazione di un valore ideale che trascende la stessa pedagogia e propone 
una visione culturale basata sull’internazionalismo, la pace, gli scambi fra i popoli” 
(Alberti, 2015: 87).
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Bisogna considerare che verso gli anni ‘50 venne a costituirsi la psicologia 
cognitivista, grazie alle opere di psicologia di Bruner e quelle linguistiche di Chomsky, 
e la pedagogia dovette adattarsi all’influenza dell’attivismo-pragmatismo mettendo al 
centro i problemi educativi dell’apprendimento, dello sviluppo cognitivo e 
dell’istruzione, in particolar modo scientifica, ponendo però poca attenzione ai 
problemi sociali dell’educazione. I grandi maestri furono Piaget, Vygotskij, Bruner e 
Gardner.  
Piaget fu psicologo dell’età evolutiva e teorico dell’epistemologia genetica, e 
si dedicò allo studio dei procedimenti cognitivi con cui si sviluppano le strutture 
logiche della mente ed il linguaggio in connessione all’ambiente che ci circonda ed a 
concetti scientifici quali ad esempio lo spazio, il tempo, il moto, la forza e la casualità. 
 Vigotskij vide la creatività centrale nell’apprendimento scolastico, 
riconoscendo un ruolo fortemente attivo all’insegnamento e all’ambiente nello 
sviluppo dell’individuo e del linguaggio, per cui ponendo in evidenza il contesto 
sociale nonché quello storico, diveniva importante lo spazio da riservare al gioco e 
all’immaginazione a favore del rapporto tra il linguaggio e il pensiero, tra le attività 
espressive artistiche e ludiche.  
Con Bruner i principi del cognitivismo vengono maggiormente applicati nella 
pedagogia. In un contesto storico in evoluzione elabora una diversa teoria 
dell’istruzione, desiderando cambiare il curricolo, dove vede la scuola come 
l’istituzione sociale che ha non solo il compito di istruire ma di trasmettere cultura, 
poiché educare è un modo di intendere la cultura e l’idea di cultura deve porre le linee 
guida per l’insegnamento. Si ha una trasformazione della didattica, dove si può iniziare 
a vedere l’insegnante come mediatore tra la cultura e l’allievo, che dà importanza ai 
progressi dei discenti nell’apprendimento, tramite la motivazione, la valorizzazione 
delle competenze, l’autocorrezione e lo scambio reciproco tra i membri della comunità 
di apprendimento; basi sulle quali poter codificare programmi di studio e valutazione 
degli studenti.  
Gardner al contrario assume una posizione critica rispetto al cognitivismo ed 
in modo innovativo, in antitesi con l’idea tradizionale che l’individuo possegga una 
sola mente ed un’intelligenza, descrive più intelligenze presenti nell’uomo, che sono
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le abilità, tra cui hanno rilievo quella che ha funzione introspettiva indagando 
l’interiorità di ogni essere umano, le proprie emozioni diventando consapevoli di sé 
stessi, e quella che ha funzione estrospettiva e consente di comprendere le emozioni, 
gli stati d’animo ed i comportamenti degli altri stabilendo relazioni sociali (Cambi, 
2005).  
Nell’attuale vita sociale, in un momento di grandi cambiamenti in cui si sta 
ridefinendo la scuola come perno della società, i riferimenti a Gardner e soprattutto a 
Bruner sono chiari, poiché hanno evidenziato l’importanza della scuola in una società 
complessa, delineando validi obiettivi formativi di spessore culturale e qualitativo, 
cercando di reinventarla da un punto di vista istituzionale e “renderla attiva nel suo 
riprogettarsi in modo costante in un habitat socio-culturale sottoposto a innovazioni 
costanti e profonde” (Cambi, 2017: 21-22).  
Gli studenti di oggi sono diversi da quelli delle generazioni precedenti, in un 
mondo che cambia velocemente per via del progresso tecnologico. In qualità di futuri 
cittadini dovranno essere in grado di prendere autonomamente decisioni inerenti la 
società e la politica e come lavoratori dovranno farsi largo in un contesto globale ove 
per le professioni maggiormente retribuite verranno richieste conoscenze settoriali e 
di alto livello, e abilità di riflessione che portino a trovare soluzioni in molteplici 
contesti. Ecco perché tali cambiamenti sono una sfida nuova per la scuola odierna: 
“l’apprendimento che in essa si manifesta deve tradursi, effettivamente, in competenze 
degli studenti, la cui formazione costituisce un aspetto cruciale in una società della 
conoscenza” (Mason, 2013: 233).  
In un quadro pedagogico, l’insegnante di oggi non dovrà trasferire solo le sue 
conoscenze, poiché la sua figura educativa dovrà essere costruita acquisendo 
competenze in ambito comunicativo e relazionale, ovvero su “quella emotiva, quella 
dell’ascolto delle emozioni reciproche e del prestare attenzione all’effetto che fanno le 
proprie emozioni sugli altri e le emozioni altrui su sé stessi” (Elia, 2017: 137). O 
volendo richiamare Balboni che ripercorre il grande contributo lasciato da Giovanni 
Freddi fondatore della scuola veneziana di glottodidattica per quello che concerne la 
formazione dei docenti, l’insegnante dovrebbe essere un “professionista formato ad 
hoc sulle basi scientifiche della glottodidattica, aperto all’uso delle tecnologie, esperto
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del mondo, o quanto meno dell’Europa, in cui insegna ai futuri cittadini come 
muoversi, come comunicare” (Balboni, 2012: 246).  
Si è molto discusso negli anni sull’importanza della professionalità e della 
formazione dei docenti. Già nel 1978, Visalberghi analizzando le varie scienze 
dell’educazione, sosteneva che un buon docente necessitasse di una formazione in 
ambito psicologico per comprendere lo studente ed il suo sviluppo cognitivo e socio-
affettivo, in ambito sociologico per investigare il rapporto tra la scuola e la società, in 
ambito metodologico e didattico per apprendere ed usare metodi e strumenti educativi, 
non tralasciando un’analisi della conoscenza e di tutte le materie di insegnamento. 
Bisognerà attendere alcuni anni per una più profonda disamina delle competenze di 
ogni insegnante che oltre all’ambito disciplinare, metodologico-didattico, 
comunicativo-relazionale ed organizzativo, vedranno l’introduzione della ricerca, 
ovvero dell’essere sempre aggiornati sulle ultime ricerche inerenti la materia che si 
insegna, e sulle indagini e sui metodi di insegnamento ed apprendimento della stessa 
(Chiappetta Cajola-Ciraci, 2013). 
Come apprendiamo da Balboni nel suo libro ‘Fare educazione linguistica’, ciò 
che caratterizza la glottodidattica dagli anni Settanta è il passaggio dall’insegnamento 
della grammatica vista come meccanismo di regole che governa la strutturazione di 
una lingua, ad una riflessione sulla lingua, ovvero dal Language Acquisition Device di 
Chomsky al Language Acquisition Support System di Bruner.  
Per acquisire una lingua ci si rende conto che non è più sufficiente 
l’osservazione di un input fornito dall’insegnante, ponendo l’attenzione su alcuni 
aspetti grammaticali per cui l’allievo in seguito dovrà fare delle ipotesi sul 
funzionamento di una struttura morfologica o di un meccanismo pragmatico o socio-
linguistico, per poi passare alla verifica di tali ipotesi o mediante altri input o 
concludendo con la produzione di un output (servendosi quindi di una metodologia 
che fa riferimento alla teoria psicologica della Gestalt che si basa sulla percezione 
umana caratterizzata dalla sequenza globalità-analisi-sintesi nel definire il rapporto e 
l’analisi della realtà circostante), arrivando a fissare i meccanismi ipotizzati ed a 
sistematizzarli in regole grammaticali; si avrà anche bisogno del sostegno, e quindi 
supporto, non solo del docente ma di un sistema più ampio che comprende la scuola, i
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materiali utilizzati, il contesto familiare e le tecnologie glottodidattiche (Balboni, 
2008a).  
Se per la comprensione dello sviluppo del linguaggio un grande contributo è 
stato apportato dagli psicolinguisti che lo considerano come un atto creativo, per cui 
“enunciazioni e frasi sono create all’interno dell’individuo” (Travers, 1986: 136), è 
fondamentale un riferimento all’antropologia linguistica di Alessandro Duranti. 
Partendo dal legame che per lui vige fra cultura e lingua, per cui per capire la cultura 
di un popolo bisogna comprendere la lingua che esso usa, Duranti ci ricorda che è bene 
fare una distinzione tra linguaggio e lingua: “il primo termine fa riferimento alla 
facoltà umana di comunicare facendo uso di particolari tipi di segni (per esempio 
suoni, gesti) organizzati in particolari tipi di unità (per esempio sequenze), mentre il 
secondo denota un particolare prodotto sociostorico, identificabile mediante 
un’etichetta come ‘inglese’, ‘tok pisin’, ‘polacco’, swahili’, ‘cinese’, ‘lingua dei segni 
americana’, ‘inglese segnato’.”(Duranti, 2018: 124). 
È sempre Balboni che sottolinea la peculiarità dell’educazione linguistica dove 
si insegna la lingua attraverso la lingua stessa, ovvero vengono a coincidere il mezzo 
con cui si apprende e l’oggetto di apprendimento. Ma per comprendere cosa voglia 
dire conoscere una lingua, bisogna secondo lui investigare “le branche in cui si 
articolano le scienze del linguaggio-dalla linguistica generale a quella delle singole 
lingue, dalla linguistica pragmatica alla socio-linguistica, alle forme di comunicazione 
extralinguistica ma comunque intrecciate alla comunicazione in lingua” (Balboni, 
2008a: 15), poiché come già sostenuto da De Martino si “impara ad usare le strutture 
della lingua in armonia con i modelli socio-culturali della comunità sociale in maniera 
che le strutture della lingua acquistino funzione significativa nei rapporti di 
comunicazione interpersonale” (De Martino, 1988: 128).   
Si è scritto ampliamente sulla nozione di educazione, sulla relazione educativa 
tra educatore ed educando, sulla centralità che si è venuta a spostare dall’educatore 
all’educando nel corso degli anni, sulla possibile implicazione derivante 
dall’etimologia latina, per cui nello scambio comunicativo-relazionale fra educatore 
ed educando, “ex-ducere significa allora ‘condurre fuori’ gli allievi, in uno spazio più 
vasto di conoscenza della realtà” (Elia, 2017: 137). E non si può certo dimenticare il
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prezioso contributo lasciato alla glottodidattica italiana da Lombardo Radice che 
vedeva l’educazione linguistica, in primis come formazione non soltanto scolastica, 
ma come educazione alla vita, e poi come “parte dell’educazione generale che include 
tutte le lingue presenti in un curricolo formativo le quali, ancorché insegnate da docenti 
differenti e in segmenti scolastici e universitari diversi, concorrono tutte insieme a 
elaborare, perfezionare e arricchire nella persona un concetto di lingua, di competenza 
linguistica e comunicativa, di apprendimento linguistico” (Balboni, 2008a: 9).   
Ripercorrendo l’opera di Don Lorenzo Milani negli anni ‘60, in quella che è 
stata definita un’utopia pedagogica, quel suo ideale di scuola giusta, non 
discriminatoria bensì aperta  a tutti, in cui vi fosse una collaborazione solidale fra 
ragazzi basata sulla giustizia, i cui contenuti dovevano essere legati al sociale e al 
politico, in cui l’educazione linguistica non doveva risolversi in uno sterile culto della 
tradizione letteraria ma doveva fornire agli alunni una lingua chiara ed efficace sia sul 
piano comunicativo che su quello logico (Cambi, 2005), sarà più facile comprendere 
e trovare corretta l’affermazione di Cambi quando dice che “oggi il fine primario 
dell’educazione è dar vita a un ‘uomo planetario’ che deve farsi cittadino del mondo e 
ciò significa comunicare col pluralismo delle culture e decostruire e oltrepassare 
pregiudizi etnici e abiti mentali circoscritti, guardando al dialogo e come regola e come 
risorsa” (Cambi, 2017: 24). 
Gli insegnanti dovrebbero pertanto riflettere sulle proprie abilità e stili di 
insegnamento, su come siano in grado di gestire una classe, sulla capacità di riflessione 
sulle proprie esperienze di vita, sulla capacità di fare ricerca-azione, su quanto e cosa 
conoscano a livello socio-culturale e se siano in grado di trasmettere tali informazioni, 
su atteggiamenti ed abilità interculturali, prestando attenzione al controllo, alla verifica 
ed alla valutazione degli studenti, poiché “le loro azioni rispecchiano atteggiamenti e 
capacità e costituiscono quindi una parte molto importante dell’ambiente di 
apprendimento/acquisizione della lingua. Essi presentano modelli ai quali gli studenti 
potranno ispirarsi quando useranno la lingua ed eventualmente quando diventeranno a 
loro volta insegnanti” (QCER, 2002: 177).