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Gli anacronismi della tutela integrale della libertà religiosa


Le libertà, pur fondamentali, da sole non bastano.
Si presentano spesso ostacoli rivenienti dalla struttura socio-culturale dominante, talvolta nazionale, che impediscono ai soggetti di esercitarle convenientemente, in misura eguale a quella degli altri.
All’affermazione della libertà, quindi, si deve necessariamente accompagnare quella di un fascio di diritti, senza dei quali i soggetti, che per alcuni aspetti (dal modo di vestire rituale al tipo di istruzione, dalla concezione del matrimonio a quello delle relazioni tra uomo e donna) si sentono in minoranza, non potrebbero godere appieno delle libertà loro formalmente riconosciute.
La società multiculturale e multireligiosa, se non è proprio una “società di minoranze”, contiene molte minoranze, magari non solide come esse vorrebbero e come amano presentarsi, magari cangianti e talvolta anche labili, ma i soggetti che ad esse fanno riferimento reclamano il rispetto della loro dignità e l’assicurazione dell’uguaglianza nei diritti.
La risposta a tale esigenza comincia a farsi largo anche nella legislazione ordinaria, come in particolare il Testo Unico sull’immigrazione (d.lgs. 286/98) che attribuisce allo Stato, alle Regioni e alle autonomie locali, un compito di “valorizzazione delle espressioni culturali, ricreative, sociali, economiche e religiose”.
Alla luce di questo criterio direttivo di fondo, che abbraccia tutti i possibili aspetti delle espressioni delle identità, vanno interpretate altre norme apparentemente più restrittive.
Il riferimento è all’obbligo, fatto alle scuole, di accogliere come valore le differenze linguistiche e culturali e alla norma antidiscriminatoria “sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni o le pratiche religiose”.

Tratto da EGUAGLIANZA E DIVERSITÀ CULTURALI E RELIGIOSE di Stefano Civitelli
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